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Il temuto anno Ferro-Tigre


Gli astrologi tibetani avevano predetto, da secoli, che le gigantesche montagne che formano la Cordigliera dell'Himalaya inizierebbero un prolungato riposo nell'anno Ferro-Tigre del Ciclo sedicesimo.1 Nessuno si aspettava che di questo fatto potessero derivare favorevoli conseguenze per il paese delle nevi eterne, motivo per cui i suoi abitanti attendevano questa data con crescente angoscia. L'annuncio del lama Tagdra Rimpoche che sarebbe proprio in detto anno quando presenterebbe la sua rinuncia alla reggenza del governo, contribuì a incrementare l'atmosfera di paurosa incertezza sul futuro a venire.

1 Equivalente al 1950 del calendario cristiano.

Arrivando il tanto temuto anno, gli eventi vennero molto presto a superare in eccesso i più pessimistici auspici. Senza soddisfare almeno l'elementare cortesia di formulare una dichiarazione di guerra, l'esercito cinese iniziò un'avanzata sulle province confinante tra il Tibet e la Cina. Fu già in mezzo alla conseguente crisi che questo evento causasse, quando è stata effettuata la solenne cerimonia nella quale il giovane Dalai Lama assunse il comando come supremo governante del paese. Molti dignitari tibetani ritenevano che i cinesi si proponevano, soltanto, porre fine alle infinite dispute che avevano sempre esistite tra le due nazioni per la fissazione dei confini. In un primo momento i fatti sembrarono fornire un fondamento a queste ipotesi, perché dopo un travolgente assalto iniziale, le truppe cinesi fermarono la loro avanzata.

Approfittando del periodo di attesa che si era generato come conseguenza dell'immobilità dell'esercito cinese, il governo tibetano realizzò disperati sforzi per far conoscere al mondo quello che stava succedendo nel centro dell'Asia. Il Dalai Lama inviò numerosi e disperati messaggi sia all'Organizzazione delle Nazioni Unite come ai governi delle nazioni più potenti della Terra, offrendo ogni genere di sicurezze per avviare un dialogo che garantisse ai cinesi l'accettazione di qualsiasi pretesa di territori confinanti che avesse alcuna giustificazione.

Manifestando una crudele ed egoista indifferenza, l'Organizzazione delle Nazioni Unite e le potenze che avevano ricevuto i messaggi del governo tibetano si rifiutarono di intervenire, non diciamo per aiutare il paese invaso, ma almeno per mediare nel conflitto.

Rendendosi conto che non esisteva nessun pericolo che qualche forza esterna si opponesse alle loro perverse intenzioni, gli invasori riprenderono la loro avanzata. Dimostrando un nero senso dell'umorismo, il governo cinese manifestò che lo scopo che lo guidava ad agire così era quello di "liberare al Tibet" (sic).
Insieme ad altri pellegrini del Palazzo di Potala che erano venuti alla cerimonia del Kumba Mela, i Teucher erano appena ritornati alla città di Lhasa quando arrivarono a questa le infauste notizie: un esercito cinese di circa centocinquanta mila uomini, dotato di moderno arsenale bellico, si era addentrato nel paese con l'evidente proposito di raggiungere la capitale del Tibet.

I membri dell'Assemblea Nazionale, guidati dal Dalai Lama, realizzarono prolungate riunioni per analizzare la situazione. Questa non poteva essere peggiore. Come risultato delle sue profonde convinzioni religiose —che sostenevano un radicale pacifismo— le autorità tibetane non avevano stimolato mai la creazione di qualcosa che in realtà potesse chiamarsi esercito; le forze che portavano questo nome consistevano solo in pochi elementi miseramente armati che esercitavano piuttosto funzioni di polizia. D'altra parte, e come conseguenza dello stesso pacifismo, il Dalai Lama e gli altri religiosi che componevano il governo vedevano con profonda ripugnanza l'idea di cercare di organizzare una difesa armata del paese e con ciò favorire il bagno di sangue. Perciò, decisero di non opporre resistenza agli invasori e lasciare la capitale al più presto.

Con preoccupata voce il lama Tschandzo Tschampa informò ai suoi amici stranieri la risoluzione presa dalle autorità di evacuare Lhasa. I Teucher ritenevano che forse la soluzione migliore sarebbe ritornare in Messico, ma il lama li supplicò che non si affrettassero a prendere una decisione, bensì rimanessero a vedere se la situazione migliorava, a tal fine chiedeva loro di accompagnarlo al monastero di Kenduling —ubicato in un nascosto posto tra le montagne che costeggiano Lhasa— dove potrebbero rimanere sicuri e in attesa dei futuri sviluppi.

Ben presto la capitale del Tibet cominciò a rimanere deserta. Lunghe carovane partivano di continuo per molte direzioni diverse, dimostrando così lo scopo dei suoi abitanti di non essere presenti nella città sacra quando gli invasori la profanassero con i loro stivali. La partenza del Dalai Lama e il suo numeroso seguito costituì l'apice del doloroso esodo. Una folla enorme lo aspettava all'uscita del Potala, manifestando con pianto e grandi voci il dispiacere che produceva in tutti i tibetani il fatto che il loro legittimo governante fosse costretto a fuggire come se fosse un malfattore.

Fu in quello stesso giorno quando il lama Tschandzo Tschampa e i Teucher lasciarono la città. In quell'occasione Regina era seduta su un vecchio yak che in più trasportava grosse valigie. La polverosa via era affollata di gente a cavallo, yak, carrette, e perfino a piedi, si allontanavano da Lhasa. La marcia verso un futuro incerto dopo aver lasciato le loro case abbandonate generava nei camminatori angoscia e disperazione. Tuttavia, quell'oppressiva atmosfera non sembrava influenzare minimamente la bambina, perché questa ricordando una canzone del compositore messicano Gabilondo Soler ("Cri-cri" ) che recentemente gli insegnasse sua madre, la cominciò a cantare con allegro tono:

Una navicella di guscio di noce 
ornata con candele di carta  
si fece oggi alla mare 
per lontano portare 
goccioline dorate di miele.  
Una zanzara coraggiosa va in essa 
molto sicura di essere buon timoniere  
e su e giù per le onde 
la navicella è già partita.  
Navigare senza paura 
nel mare è la cosa più bella  
non c'è motivo di mettersi a tremare  
e se viene nera tempesta  
ridere, cantare e fischiare.  
La zanzara va contenta 
per i mari lontani del sud.
La vocina della bambina, intonando una canzone in una lingua sconosciuta su un tema marino in una nazione medi terranea, cominciò a produrre un sorprendente effetto nei suoi ascoltatori. In un primo momento molto lentamente, ma poi con incredibile celerità, i tibetani che circondavano Regina sentirono che nel più profondo della loro anima si risvegliava una nuova e potente energia. Come se si trattasse di una sorta di incontenibile e magico contagio, i sentimenti di forza e di speranza che erano sorti tra coloro che ascoltavano la canzone di Regina, cominciarono a diffondersi  verso la parte anteriore e posteriore dell'interminabile colonna di persone che fuggivano di Lhasa. Acclamazioni al Tibet e al Dalai Lama, pronunciate con vigore crescente, avvenivano più e più volte. L'aria cominciò a riempirsi con i suoni di popolari canti nei quali si alludeva a diversi argomenti, da mistiche questioni fino a romantici amori.

I genitori di Regina osservavano con stupore quello che stava accadendo. Questa era la seconda occasione in cui avevano avuto la possibilità di contemplare la sorprendente facilità con cui la bambina poteva trasformare i più densi stati d'animo in un clima di straripato ottimismo. Si trattava, in realtà, di qualcosa di incredibile e completamente inspiegabile.

Dopo varie ore di marcia i Teucher, il lama Tschandzo Tschampa e il piccolo gruppo di religiosi e servitori che li accompagnavano, si allontanarono dalla congestionata via per addentrarsi per l'angusto sentiero che portava al monastero di Kenduling.
In virtù dell'atteggiamento adottato dalle autorità tibetane volte ad evitare uno scontro armato con gli invasori, tutto faceva pensare che il percorso delle truppe cinesi fino alla città di Lhasa costituirebbe una semplice passeggiata militare. Tuttavia, contrariamente a quanto supponevano tanto il governo cinese come il tibetano, ciò non fu così. Emergendo da un passato che tutto il mondo aveva dimenticato già, alcune leggendarie figure irruppero senza preavviso in scena: i khampa.

Le vaste pianure e i massicci montagnosi dell'Asia Centrale sono stati il fermento naturale per la creazione di un tipo molto speciale di essere umano: il guerriero nomade, un soggetto che considera la libertà come il bene massimo a cui è possibile aspirare sulla Terra.

Altezzosi, feroci e indomabili, i guerrieri nomadi dell'Asia Centrale mantennero per millenni una lotta incessante contro le organizzazioni politiche stabili, che stabilite nelle grandi città a cui tanto detestavano, pretendevano sottoporli alla loro autorità, fargli pagare tasse e mettere limiti alla sua amata libertà. Ogni volta che sorse tra i nomadi un leader geniale in grado di raggrupparli in un grande esercito, si generò una forza devastante che distrusse quanto si opponeva al suo anelito di trasformare il mondo in un'enorme steppa. Attila, Gengis Kan e Tamerlano, sono soltanto alcuni dei nomi più conosciuti dell'interminabile galleria dei guerrieri appartenenti a questa stirpe.

Nel corso del tempo, l'inesorabile avanzata delle società sedentarie fu eliminando gradualmente il nomadismo persino nei più appartati angoli della Terra. Al punto che a metà del XX secolo nessuno avrebbe potuto credere che questa forma di vita sussisteva ancora con tutte le sue tradizionali caratteristiche in una grande regione dall'interno dell'Asia, ubicata entro i confini del Tibet: la provincia di Kham, abitata per la "Razza dei Re", come piaceva ai khampa essere considerati, temibili guerrieri che molte volte avevano scosso l'Impero Cinese, i cui governanti sceglierono in varie occasioni pagare pesanti tasse ai bellicosi nomadi, a patto che questi si impegnassero a non avventurarsi per un certo tempo nei territori cinesi.

Leali buddisti e profondamente patrioti, i khampa avevano riconosciuto sempre l'autorità spirituale del Dalai Lama, ma nonostante, ciò non impediva loro di combinare le sue abituali attività di pastorizia con alcune rapine di tanto in tanto alle ricche carovane di mercanti. Allo stesso modo, rimanevano attaccati saldamente al suo vecchio principio di non pagare un centesimo di imposta a qualsiasi tipo di autorità.

Accadendo l'invasione cinese nell'anno Ferro-Tigre, i khampa reagirono immediatamente. Senza fare la minima attenzione alle risoluzioni pacifiste emesse dal governo tibetano, presero le loro antiche armi, montarono i loro briosi destrieri e si precipitarono alla lotta. La sproporzione tra tutti e due contendenti risultava travolgente. La Cina era una potenza mondiale, detentrice dell'esercito più grande della Terra. I khampa erano una manciata di nomadi, armati di vecchi fucili e di lunghe sciabole.

Comprendendo che sarebbe loro impossibile fermare suoi avversari in uno scontro frontale, i khampa si organizzarono in guerriglie e iniziarono l'incessante persecuzione delle forze d'invasione. Attraverso la loro conoscenza del terreno e al sostegno che ricevevano della popolazione, furono in grado di provocare frane negli alti passi delle montagne giusto nei momenti in cui passavano per essi i contingenti più numerosi delle truppe cinesi. Inoltre, avvelenarono l'acqua dei pozzi delle zone desertiche che tali truppe dovevano attraversare e sterminarono ogni gruppo che si staccava dal corpo principale dell'esercito nemico, lo stesso le avanzate che i responsabili di mantenere le linee di comunicazione e di approvvigionamento.

L'inaspettata ed efficace resistenza dei khampa costrinse il governo cinese ad un cambiamento di programma. In un primo momento aveva pensato che potrebbe annettersi al Tibet in modo rapido e senza dover utilizzare grandi mezzi per farlo. Notando il suo errore, i cinesi tracciarono una nuova politica che senza cambiare il bersaglio, richiedeva per la sua realizzazione di parecchio tempo e dell'impiego di ingenti risorse.

Il decimato esercito cinese che finalmente riuscì a raggiungere Lhasa scoprì che la città stava completamente abbandonata. Autorità ed abitanti erano fuggiti, dimostrando in tal modo il suo rifiuto di stabilire alcun tipo di accordo con gli invasori, ma questi diedero inizio all'applicazione della sua nuova politica basata nell'ipocrisia e l'inganno. Reprimendo i suoi desideri di vendetta —generati dalle pesanti perdite che i khampa avevano causato nelle loro file— le truppe cinesi rispettarono scrupolosamente i beni esistenti nella desolata città, compresi i allettanti tesori accumulati in templi e palazzi. Nawang Ngabo, funzionario tibetano che i cinesi avevano catturato durante la loro avanzata (e che segretamente aveva accettato collaborare con loro) fu inviato alla ricerca del Dalai Lama portando un'offerta di pace che conteneva tutti i tipi di concessioni.

Alla luce dell'atteggiamento assunto dagli invasori, il governo tibetano accettò di avviare trattative, le quali conclusero finalmente in un accordo in cui il Tibet apparentemente non risultava tanto danneggiato, poiché i cinesi si impegnavano a rispettare l'esistenza di un governo locale autonomo guidato dal Dalai Lama e le altre autorità tradizionali. Allo stesso modo, garantiva che non si effettuerebbe nessun tentativo di modificare né le credenze religiose né le tradizioni popolari, imponendosi, questo sì, clausole nelle quali si stabiliva che la Cina rappresenterebbe il Tibet nei rapporti con l'estero e che nell'intento di "difenderlo da qualsiasi aggressione" (?) le truppe cinesi andrebbero progressivamente ad occupare tutte le regioni del paese.

Dopo la firma dell'accordo (al quale si diede il nome di Accordo dei Diciassette Punti) la pace sembrò ritornare al paese delle nevi eterne. Abbandonando il suo rifugio nelle montagne il Dalai Lama fece il suo ritorno a Lhasa. Seguendo il suo esempio cominciarono a reinserirsi alle sue attività normali tutti i tibetani che avevano abbandonato campi e città. Perfino i khampa, sebbene malvolentieri, sospesero i loro attacchi e scelsero di aspettare di vedere quale era il comportamento che assumevano gli invasori.

Non appena arrivò al monastero di Kenduling la notizia che il Dalai Lama era tornato nella capitale, il lama Tschandzo Tschampa e i Teucher ritornarono immediatamente al Potala. Pochi giorni dopo loro reintegrazione in detto palazzo, furono ricevuti un'altra volta per il Supremo Governante del Tibet. Il Dalai Lama manifestò loro che, nonostante l'accordo appena firmato, non nutriva nessuna speranza che i cinesi mantenessero la sua promessa di rispettare l'autonomia del Tibet. Era sicuro che il proposito che in realtà li guidava era quello di annettersi il paese e distruggere la sua pregiata eredità culturale. Stimava che non esisteva nessun modo di opporsi riguardo il primo punto, ma che in qualche modo si otterrebbe evitare il secondo. Finalmente affermò che, se aveva accettato entrare in negoziazioni con i cinesi ciò si doveva non solo al suo desiderio di evitare la lotta armata e il successivo spargimento di sangue, ma anche riteneva che in questo modo riuscirebbe a guadagnare tempo per poter compiere quello che qualificò sarebbe "l'ultimo sacro impegno del governo tibetano", cioè proporzionare l'istruzione adeguata a Regina, la piccola Dakini che in quei momenti, ignorando la massima importanza che gli attribuivano gli adulti, giocava a nascondersi dai suoi genitori nascondendosi dietro una delle grosse tende esistenti nella sala ricevimenti.

Conclusa l'udienza, i Teucher percorsero mezzo Potala per raggiungere le stanze dove risiedevano. Come al solito il vasto palazzo era il centro di un chiassoso formicaio umano dedicato alle più svariate attività, dalla gestione di pratiche burocratiche fino alla celebrazione di solenni atti religiosi nelle sue numerose cappelle. L'atmosfera arrivava a volte a risultare assordante, perché all'incessante mormorio di innumerevoli voci si univa il commovente suono degli enormi gong e le acute note che emettevano le lunghe trombe di argento.

—Per quanto potrebbe durare tutto questo? —domandò Richard dirigendosi apparentemente a Citlali, ma in realtà parlando con sé stesso.

L'interrogata sollevò inizialmente le spalle, evidenziando con questo gesto la sua incapacità di trovare una risposta appropriata, ma poi il suo viso lasciò vedere un sentimento di sicura fiducia, al tempo che rispondeva con la dolce fermezza che la caratterizzava:

—Durerà quello che debba durare, affinché si realizzi quello che Dio vuole.