Capitolo VII

La prova del fuoco 
o il massacro di Tlatelolco



E agli altri messicani che non potevano guadare;  
li mise ponte una donna vestita alla vecchia maniera, 
che non si sa da dove veniva.


FERNANDO ALVARADO TEZOZÓMOC,
Cronica Mexicayotl

2 ottobre non si dimentica

1

L'arresto del Movimento

Il lunedì 16 di settembre sarebbe stata una giornata di importanti avvenimenti per il lic. Gustavo Díaz Ordaz. La fischiettata che ricevesse la sera prima nella Piazza della Costituzione gli aveva impedito di conciliare il sonno e il suo volto appariva ancora più cupo del solito. Il presidente masticava rabbia e colazione nella residenza ufficiale di Los Pinos, quando si avvicinò al tavolo il suo segretario personale, il lic. Joaquín Cisneros, a fornirgli un'informazione che immediatamente ritenne inestimabile. Il Tenebras, fallito fondatore ed ex dirigente dei Halcones, si era presentato ben presto nella residenza presidenziale, sostenendo di possedere trascendentali rivelazioni sul movimento che desiderava far sapere al primo mandatario. Il lic. Cisneros aveva respinto l'assurda richiesta di audizione. Era la giornata commemorativa della massima festività nazionale e il presidente doveva rispondere un stretto programma di attività,  una più solenne dell'altra.

Il totale rifiuto alla sua richiesta di audizione non aveva scoraggiato il Tenebras - proseguì informando il lic. Cisneros -. Estraendo di una cartellina un foglio di carta contenente una lunga lista di indirizzi, l'ex grande halcón affermò che queste appartenevano alle numerose scuole in sciopero che erano state mitragliate da un gruppo che lui comandava, composto per competenti cittadini leali al governo. Il lic. Cisneros era a conoscenza dell'interesse del presidente di conoscere gli autori dei mitragliamenti e delle strutture in sciopero, motivo per cui giudicò che la soluzione migliore sarebbe che fosse lo stesso mandatario che risolvesse se accettava o non di concedere l'intervista.

Il lic. Díaz Ordaz accordò favorevolmente la richiesta. L'ex narcotrafficante, ex comandante della Federale di Sicurezza ed ex capo dei Halcones fu introdotto fino alla sala della colazione presidenziale, posto dove ricevé le più vive congratulazioni del suo anfitrione per il "patriottico e disinteressato" lavoro che veniva svolgendo.

Il Tenebras accettò volentieri le lodi che gli erano prodigate e si mise a raccontare, molto sinteticamente, l'intensa attività a cui era dedito da quando fosse licenziato dal governo. Fermamente deciso a vendicarsi di coloro che avrebbero propiziato la disintegrazione del gruppo repressivo che con tanto impegno formasse, cominciò costituendo una banda integrata per i più spietati delinquenti. Una circostanza facilitò considerevolmente il suo compito. Il mercato di stupefacenti che fino a faceva soltanto alcuni mesi era in piena espansione, aveva sofferto un inaspettato collasso a partire dall'inizio del Movimento. A quanto pare la stragrande maggioranza dei giovani trovavano molto più divertente partecipare a manifestazioni e raduni che drogarsi. Allarmati davanti a questa situazione, gli alti capi del narcotraffico - continuò raccontando il Tenebras - gli avevano proporzionato l'aiuto necessario per organizzare la sua esclusiva banda, sulla base che l'obiettivo fondamentale della stessa fosse quello di combattere il Movimento. E così avevano fatto, utilizzando per ciò le più diverse procedure: mitragliamenti a sorpresa alle strutture in sciopero - con il conseguente risultato di studenti e padri di famiglia morti o feriti -, rapimenti e pestaggi a dirigenti studenteschi e popolari, attacchi a locali commerciali e centri di intrattenimento fingendo di essere vandalici sostenitori del Movimento. Il suo ultimo, e di successo, compito consisteva in aver distrutto a martellate i vetri di varie centinaia di automobili i cui proprietari le avevano lasciate parcheggiate nelle prossimità del Museo di Antropologia mentre prendevano parte alla Manifestazione del Silenzio.

Sempre più incoraggiato dallo sguardo di entusiastica approvazione con cui erano ricevute le sue parole, il Tenebras proseguì raccontando le loro attività, le quali non si concretizzavano a semplici attacchi ai sostenitori del Movimento; convinto che quest'ultimo era trainato da un sconosciuto e misterioso dirigente si diede al compito di localizzarlo. E ci era riuscito, affermò con trionfale accento al tempo che dispiegava sul tavolo, in cui faceva colazione il presidente, diversi fascicoli di documenti.

Godendo al massimo l'evidente aspettativa con cui il primo mandatario seguiva le sue spiegazioni, il Tenebras prese il più grosso dei fascicoli che tirasse fuori della cartellina e lo consegnò al lic. Díaz Ordaz affermando:

-In questo dossier c'è una completa informazione sulla persona che costituisce la forza che sostiene il Movimento. Il suo nome è Regina Teucher Pérez. Fu allenata per diversi anni come agente sovversivo nella Cina Comunista, in una scuola speciale per donne dove le fanno il lavaggio del cervello e le trasformano in fanatiche maoiste. Come lei potrà vedere, i documenti sono copie di originali che si trovano in archivi ufficiali, della Segreteria di Governo come di quella di Relazioni Esterne. Li ho avuti grazie all'aiuto di vecchi colleghi della Federale di Sicurezza.

Il presidente sfogliò rapidamente il dossier comprovando che, in effetti, conteneva numerose copie di documenti migratori emessi dal consolato messicano a Hong Kong, relativi ad una giovane nata in Messico che, dopo aver trascorso diversi anni in un centro di rieducazione per donne della Cina rossa, aveva sollecitato il suo ritorno al paese. Il dossier non conteneva solo copie di documenti migratori, bensì una grande quantità di fotografie in cui si vedeva ad una bella hostess olimpica la cui attiva partecipazione nel Movimento era piuttosto evidente. In quasi tutte le foto l'Hostess appariva arringando a diversi gruppi e nelle ultime fotografie - marcate con la data 13 settembre - la giovane si trovava in testa alla Manifestazione del Silenzio.

Il Tenebras puntò con il suo grosso dito indice l'immagine di due soggetti che apparivano in una foto accanto all'Hostess.

-Sono due dei miei Halcones - affermò con un accento di nostalgico risentimento -. Senza saperlo furono loro quelli che mi diedero la chiave di questa faccenda. Sono fratelli ed erano i più maschioni di tutto il gruppo. Il giorno dopo la Manifestazione del Rettore andai a vederli a casa loro, a chieder loro cosa fosse successo. Erano come stregati. Si rifiutarono di spiegarmi le cause del fallimento dell'operazione, solamente mi dissero che avevano deciso di non tornare ad essere flagelli, bensì gente di pro. Mi resi conto che qualcosa di molto strano stava succedendo. Appena ho potuto li ho fatti pedinare per sapere cos'era quello che stavano tramando. Tutto il tempo erano con quella Hostess, da un posto all'altro, agitando la gente a favore del Movimento. E non solo loro, quasi tutti i miei Halcones stavano facendo la stessa cosa. La maledetta strega ha organizzato un gruppo sovversivo davvero pericoloso, non c'è dubbio che i cinesi sono i migliori insegnanti per preparare anarchici rivoluzionari.

La colazione del presidente si stava raffreddando. Il lic. Díaz Ordaz aveva smesso di ingerire i suoi alimenti e gli interessava soltanto ascoltare le rivelazioni che gli erano fatte. Sempre più soddisfatto e presuntuoso, il Tenebras mise in mano del suo interlocutore quattro nuovi dossier ed affermò:

-Qui stanno i dati dei quattro principali collaboratori dell'Hostess; uno è architetto e gli altri tre sono contadini; tutti loro sono gente di grande successo in loro ambiente. Uno è "generale conchero", lei sa, di quelli che danzano con piume all'entrata delle chiese. Un altro è erborista in Oaxaca e l'altro dirigente contadino in Yucatan. Adesso stanno vivendo insieme tutti con quella vecchia, a pochi isolati da qui. Negli dossier viene una relazione completa di ognuno.

Il lic. Díaz Ordaz consultò il suo orologio, era arrivata l'ora di dirigersi alla cerimonia che avrebbe luogo nel giro di pochi minuti nella Colonna dell'Indipendenza. In parole che rivelavano la sincerità dei suoi sentimenti, il primo mandatario ringraziò per l'inestimabile informazione ricevuta e notificò a chi gliela aveva proporzionata che nuovamente appariva - con un sostanziale aumento - sul libro paga del bilancio nazionale.

Conclusa la cerimonia alla Colonna dell'Indipendenza, il lic. Díaz Ordaz, si spostò al Palazzo Nazionale al fine di presiedere, dal balcone centrale, la tradizionale sfilata militare commemorativa delle Feste Patrie. Prima che la sfilata desse inizio, il segretario della Difesa chiese di parlare qualche minuto da solo con il presidente. Un'immensa preoccupazione sembrava incrementare le già di per sé abbondanti rughe che attraversavano il volto del generale Marcelino García Barragán.

In breve resoconto il militare informò che quella mattina era stato visitato dal signore Winston Scott, massimo dirigente in Messico della Centrale di Intelligenza degli Stati Uniti d'America (CIA), il quale gli aveva esposto crudamente il motivo della sua visita: il governo degli Stati Uniti considerava quello del Messico come un mero custode dei loro interessi; alla luce del fatto che gli ultimi avvenimenti rivelavano una palese incapacità delle autorità messicane di risolvere il conflitto a cui si affrontavano, il Dipartimento di Stato statunitense aveva deciso di favorire un colpo di Stato, al fine di evitare che, dopo la già non molto lontana caduta del governo, il controllo del paese potesse essere lasciato nelle mani di dirigenti che considerassero il suo dovere servire prioritariamente i suoi propri concittadini, e lasciassero in seconda o ultima istanza il proteggere interessi stranieri. Attraverso il suo canale - finì il dirigente della CIA - il governo degli Stati Uniti offriva fornire al segretario della Difesa ogni aiuto fosse necessario per riuscire che il colpo di Stato si realizzasse con successo.

Il generale Marcelino García Barragán concluse suo racconto menzionando alcuni degli insulti che aveva scagliato al dirigente della CIA prima di ordinargli di uscire dalla sua casa.

La notizia che aveva perso la fiducia del governo degli Stati Uniti fece ammutolire momentaneamente il lic. Díaz Ordaz. Durante tutta la sua vita di funzionario pubblico aveva cercato di essere gradito alle autorità statunitensi, e di conseguenza, giudicava come un inqualificabile tradimento quello che queste ritirassero il loro sostegno. Quando finalmente recuperò la compostezza, il presidente chiese il segretario della Difesa lo accompagnasse a passare in rassegna la sfilata militare, assicurandogli che quella stessa sera avrebbero cominciato a prendere i provvedimenti idonei per risolvere il già prolungato conflitto.

E in effetti, quella sera, in una riunione che ebbe luogo nella residenza ufficiale di Los Pinos, e alla quale erano presenti il capo del Dipartimento del D.F., il procuratore della Federazione e i segretari della Difesa, di Governo e di Relazioni Esterne, il lic. Díaz Ordaz rese noto varie misure che integravano un nuovo piano di azione volto a liquidare il Movimento. La prima di queste era l'ordine di catturare immediatamente una pericolosa agente sediziosa allenata in Cina e ai loro principali scagnozzi. La seconda era una richiesta al governo statunitense - che doveva essere formulata verbalmente dal segretario di Relazioni Esterne all'ambasciatore degli Stati Uniti in Messico, signore Fulton Freeman - nel senso che prima che procedesse ad orchestrare un colpo di Stato concedesse al governo del Messico un termine affinché questo potesse porre fine al Movimento, con la comprensione che detto termine sarebbe prorogabile e concluderebbe dieci giorni prima dei Giochi Olimpici, i quali darebbero inizio il giorno dodici ottobre.

Rivolgendosi al generale Marcelino García Barragán, il presidente espresse:

-Abbiamo rispettato rigorosamente la promessa che facemmo di consentire tre grandi concentrazioni nella Piazza della Costituzione. Queste si sono realizzate già. Spero che non ci saranno ora più obiezioni e che le Forze Armate sapranno compiere il suo dovere di imporre l'ordine, senza considerazioni di nessun genere.

-Può contarci, signor presidente - rispose il segretario della Difesa.

-Bene, in quel caso lei coordini con lo Stato Maggiore le operazioni necessarie affinché siano occupate dalle truppe, al più presto possibile, tutte le scuole in sciopero, sia quelle della capitale come quelle degli stati.

-Così sarà fatto, signore - affermò il generale.
Un boato sordo, simile ai primi e terrificanti rumori prodotti da un terremoto, attraversava la città. L'esercito avanzava in direzione a Città Universitaria. Migliaia di soldati in assetto da combattimento, centinaia di carri armati e carri di assalto, bazooka, mortai, cannoni e lanciafiamme. Erano le dieci di sera di mercoledì 18 settembre 1968. Una pioggia costante si abbatteva sulla capitale della Repubblica. 

Lo spostamento del convoglio militare non passò inavvertito per gli abitanti del Distretto Federale. Immediatamente innumerevoli persone cercarono di chiamare la Facoltà di Medicina, per prevenire i membri del Consiglio Nazionale di Sciopero del grave rischio che correvano. Non ci riuscirono, le linee telefoniche di Città Universitaria erano state disattivate nel momento in cui le truppe iniziavano la loro marcia. Salendo su automobili e motocicli, numerosi studenti e padri di famiglia si precipitarono a tutta velocità verso il sud della città. Oltrepassando pesanti carri armati e camion carichi di soldati, riuscirono ad arrivare al  Pedregal de San Ángel con un notevole vantaggio sull'avanzata dell'esercito. 

Nell'auditorium della Facoltà di Medicina aveva luogo una delle abituali e lunghe sessioni del Consiglio Nazionale di Sciopero. Il collettivo organismo del Movimento era costituito da poco più di trecento delegati, rappresentanti delle diverse strutture di insegnamento superiore che erano in sciopero in tutto il paese. Il più puro spirito democratico spiccava nelle sessioni del Consiglio. Anche se i suoi membri appartenevano a movimenti e partiti politici molto diversi, nessuno di questi poteva vantarsi di influire in maniera determinante nelle decisioni del Consiglio, perché queste erano sempre un risultato degli accordi maggioritari adottati nelle assemblee che di continuo si effettuavano in scuole e facoltà. 

Un crescente numero di studenti e padri di famiglia arrivarono all'auditorium della Facoltà di Medicina portando l'allarmante notizia: l'esercito si avvicinava a Città Universitaria. Con grande sangue freddo e senza il minimo segno di nervosismo, i dirigenti studenteschi deliberarono sulla condotta che dovevano assumere davanti all'imminente arrivo delle truppe. Si decise che il tentativo sarebbe di salvaguardare l'esistenza del Consiglio, a tal fine era imprescindibile evitare la loro cattura. Finì la sessione e con calma, come se stessero uscendo da una classe, i delegati furono abbandonando l'auditorium. Le luci dei primi trasporti militari stavano violando già l'autonomia dello spazio universitario. Avanzando in due colonne, con l'evidente intenzione di chiudere come pinze che ricoprissero tutta la Città Universitaria, le truppe si muovevano lentamente su un terreno che era loro sconosciuto. Né i membri del Consiglio né nessuno di quanti vollero evitare di rimanere acchiappati nel cerchio, ebbero alcuna difficoltà a raggiungere il loro scopo. 

Una volta chiuse le pinze, i soldati iniziarono una metodica ispezione dei diversi edifici e strutture. Le porte di alcuni erano chiuse e furono aperte con il calcio dei fucili, rompendo diverse finestre. Non tutti quelli che si trovavano in Città Universitaria avevano lasciato questa al momento dell'occupazione militare. I membri dei comitati di vigilanza delle diverse scuole e facoltà sceglierono di rimanere negli edifici la cui custodia era stata a loro affidata. Qualcosa di simile succedé in una riunione di padri di famiglia, la maggior parte dei quali era del parere che non dovevano ritirarsi poiché non stavano commettendo nessun reato. Insegnanti e invitati ad un esame professionale - che aveva luogo nella Facoltà di Economia - si rifiutarono ugualmente di sospenderlo nell'apprendere della prossimità dell'esercito. In tutti i casi procedevano a fermare quanta persona trovavano. Dopo di perquisire i detenuti, questi erano portati - con le mani nella nuca ed una baionetta premendo le spalle - fino alla spianata del rettorato, luogo dove erano tenuti a buttarsi a terra e rimanere immobili sul bagnato pavimento. Inzuppati e silenziosi, i prigionieri formulavano provocanti con le dita la "V" di "Vinceremo".

Una volta congregate tutte le persone che erano state catturate a Città Universitaria - circa settecento - i militari cominciarono a organizzare il suo trasferimento ai veicoli dell'esercito. Prima che detto trasferimento desse inizio, si suscitò un incidente che per poco causa un massacro. In base agli ordini di un ufficiale, sei soldati cominciarono ad ammainare la bandiera piazzata a mezz'asta per il rettore Barros Sierra dal 30 Luglio. Malgrado fossero stati ripetutamente avvertiti che se cercavano di alzarsi si sparerebbe su di loro, tutti i prigionieri, come se fossero stati spinti dalla stessa molla, si alzarono e cominciarono a cantare l'Inno Nazionale. Centinaia di fucili sistemarono cartuccia e puntarono le teste dei detenuti. Gli spari sarebbero stati fatti a bruciapelo. Fortunatamente l'opportuna voce di un capitano impedì la tragedia. 

-Non sparate, non sparate! -ordinò l'ufficiale al tempo che si metteva sull'attenti davanti la bandiera. 

I soldati abbassarono i fucili e si misero sull'attenti. Vibrante di emotività l'inno arrivò alla sua fine. I prigionieri ormai non furono costretti a ritornare al suolo, allineati in lunghe file furono condotti ai camion che li aspettavano per portarli a diverse prigioni. 

Una per una se ne andarono spegnendo le luci di Città Universitaria. Nere tenebre regnavano nei recinti della più antica Università del continente.
Nel settembre di 1968, le scuole professionali dell'Istituto Politecnico Nazionale stavano raggruppate in due grandi complessi: l'Unità Professionale di Zacatenco e l'antico Casco de Santo Tomas, situati entrambi nel nord-ovest della città e separati fra loro per poco meno di due chilometri.1

1  Integravano l'Unità Professionale di Zacatenco, la Scuola Superiore di Ingegneria Meccanica ed Elettrica (ESIME), la Scuola Superiore di Ingegneria Meccanica ed Architettura (ESIA), la Scuola Superiore di Ingegneria Chimica ed Industrie Estrattive (ESIQUIE) e la Scuola Superiore di Fisico-Matematiche (ESFM). 
Facevano parte del Casco de Santo Tomas - che derivava il suo nome della hacienda con identica denominazione che esistesse in altri tempi in quel stesso posto - la Scuola Superiore di Commercio ed Amministrazione (ESCA), la Scuola Superiore di Medicina Rurale (ESMR), la Scuola Superiore di Economia (ESE) e la Scuola Nazionale di Scienze Medico Biologiche (ENCMB). Appartenevano anche al casco la Vocacional Tre e la Scuola Tecnologica Wilfrido Massieu. 

L'assedio contro i due complessi che raggruppavano le più importanti installazioni politecniche fu eseguito inizialmente per forze della polizia e posteriormente dell'esercito. Il fatto che si utilizzasse di nuovo l'impiego della polizia prima di utilizzare l'esercito, ubbidì a che lo Stato Maggiore Presidenziale considerò che stavano per mancargli soldati per occupare tutte le scuole in sciopero del paese, e pertanto, doveva trovare il modo in cui partecipassero a detta operazione le corporazioni della polizia delle diverse entità federative, per il quale si procedé a dotarle sia di un nuovo armamento che sostituiva i suoi bastoni per fucili, così come di un dettagliato piano strategico riguardante il modo in cui dovevano effettuare i loro attacchi, i quali furono, in alcuni casi, previamente testati sotto la supervisione militare.

Mentre le forze di polizia della capitale si preparavano per cercare di prendere d'assalto le installazioni del Politecnico Nazionale, gli studenti dello stesso non rimanevano inattivi aspettando l'attacco. Zacatenco e Santo Tomas furono trasformati in bastioni difensivi, utilizzando a tal fine tutti i tipi di risorse. I tetti degli edifici scolastici erano traboccanti di cumuli di pietre e di "bombe Molotov." Barricate costruite a base di catturati autobus, strapieni di stoppa e benzina, garantivano la rapida creazione di muraglie di fuoco. Canne fumarie trasformate in artigianali "bazooka", permettevano di lanciare a considerabile distanza risonanti razzi.

Il lunedì 23 settembre, contemporaneamente che in lungo e in largo della Repubblica innumerevoli contingenti militari e di polizia invadevano gran parte delle scuole in sciopero, la polizia del Distretto Federale lanciava il suo atteso attacco agli edifici politecnici. Lo scontro tra studenti e poliziotti raggiunse immediatamente - sia in Zacatenco come in Santo Tomas - insolita violenza. In entrambi i luoghi lo sviluppo degli eventi risultò molto simile. Vedendo avvicinarsi alle loro scuole la valanga blu, gli studenti diedero fuoco le barricate di autobus. I poliziotti combatterono il fuoco con estintori e cercarono di utilizzare gru per ritirare i carbonizzati camion. Chiuse raffiche di razzi, pietre e "cocktail Molotov" impedì loro di spostare un solo veicolo. Cambiando tattica, i poliziotti cominciarono a sparare i loro fucili contro gli studenti piazzati sui tetti e finestre degli assediati edifici, provocando numerose vittime tra le file politecniche, ma ciò non suscitò in queste paura, ma al contrario, incrementò ancora di più il suo stato d'animo combattivo: la pioggia di pietre ed altri oggetti missili non cessava di cadere sui poliziotti.

Lo stesso in Zacatenco che in Santo Tomas, i politecnici adottarono una misura strategica che alla fine risulterebbe definitiva nello sviluppo dell'incontro, soltanto una parte degli studenti coinvolti nella lotta si trovava difendendo gli edifici; la stragrande maggioranza rimaneva nelle strade aspettando il momento giusto per effettuare un contrattacco. Ed in entrambi i casi, il segnale indicatore che detto momento era in arrivo fu dato dal graduale declino degli spari della fucileria, risultante dell'esaurimento del parco che nutriva le armi della polizia. Quando finalmente queste tacquero, le migliaia di studenti che rimanevano nelle strade si trasformarono in un impetuoso torrente di sfrenata furia. Niente li contenne. La superiore organizzazione dei distaccamenti blu risultò impotente davanti alla giovanile valanga. Lottando con febbrile disperazione, i poliziotti ripartivano calci di fucili a destra e sinistra. Non cercavano già ottenere la vittoria sui suoi rivali, ma di scappare dalla distruttiva trappola in cui si trovavano. Finalmente ci riuscirono.

In questa occasione, le autorità non ebbero la possibilità di far scomparire i corpi degli studenti che erano morti nell'incontro, perché i cadaveri rimasero all'interno degli edifici scolastici. In Zacatenco sono rimasti uccisi quattro giovani e una ragazza. In Santo Tomas sette studenti maschi e due donne. In tutti i casi i decessi erano stati causati da spari di fucile. Ci sono stati anche diverse centinaia di feriti, molti dei quali in modo grave. Trascurando la disposizione di legge che li obbliga a riferire al Ministero Pubblico le cure che forniscono a feriti d'arma da fuoco, i medici della capitale proporzionarono efficace assistenza agli studenti colpiti dai proiettili.

Dopo il fallimento della polizia arrivò l'ora dell'esercito. Il suo intervento ebbe luogo l'indomani, cioè il martedì 24 settembre. Lunghe e blindate colonne si sono dirette verso i due complessi di edifici scolastici. Portavano l'intera gamma di mortiferi armamenti che compongono gli arsenali dei moderni eserciti. Il pavimento e gli abitanti della città tremavano al passaggio degli enormi carri armati. Migliaia di angosciati informatori diedero opportuno avviso ai politecnici della minaccia che su di loro planava. In Zacatenco e Santo Tomas si sono verificate diverse reazioni, risultato del molto diverso simbolismo che possedevano questi centri nello spirito della comunità politecnica. L'Unità di Zacatenco era di recente creazione, appena alcune generazioni di studenti avevano passato per le loro aule. L'antico Casco de Santo Tomas era il cuore del Politecnico. Lì era nato questo Istituto e tutto lo spazio che lo integrava era impregnato con i desideri dei suoi fondatori e i sentimenti di coloro che avevano insegnato e imparato nei loro edifici.

Pienamente consapevoli dell'impossibilità di far fronte all'esercito, gli studenti di Zacatenco uscirono dalle loro scuole prima che le truppe penetrassero in queste. Ben presto soldati fortemente armati occupavano le aule. Carri armati e cannoni parcheggiavano nei campi sportivi e nei laboratori si immagazzinavano granate e munizioni. La radicale trasformazione delle strutture scolastiche si effettuò in modo veloce ed efficace, senza che niente e nessuno si opponesse alla sua realizzazione.

Come accadesse in Zacatenco, in Santo Tomas non mancarono avvertenze sull'imminente arrivo delle truppe. Allo stesso modo, la logica e la ragione fecero vedere, alla maggior parte degli studenti lì congregati, l'inutilità di cercare di resistere lo schiacciante potenza dell'esercito. Nonostante, cominciando lo sgombero degli edifici, numerosi politecnici decisero che non potevano lasciare abbandonate le loro scuole. Sapendo che molto probabilmente perderebbero la vita se si ostinavano a farlo, decisero difendere il Casco de Santo Tomas.

Effettuando la sua già tradizionale manovra avvolgente, due colonne di truppe chiusero un ampio cerchio che copriva tutta la zona scolare che comprende il Casco de Santo Tomas. Appena concludevano tale manovra, quando provenienti di Zacatenco arrivarono tre autobus guidati a tutta velocità. Senza ridurre la loro marcia i veicoli si lanciarono contro la verde barriera che integravano i soldati, i quali furono costretti a farsi da parte per evitare di essere investiti. Si ascoltarono i primi spari. Con i vetri rotti e innumerevoli impatti nei fianchi, i camion proseguirono la loro avanzata. Si fermarono davanti allo scudo del Politecnico che abbelliva l'ingresso del più antico degli edifici. Di ognuno degli autobus scesero diverse dozzine di giovani.

-Quelli di Zacatenco siamo anche politecnici - affermò uno dei nuovi arrivati.

Il roco suono dei motori dei carri armati e il ritmico picchiettare degli stivali dei soldati indicavano che il cerchio si stava stringendo. Gli studenti disponevano di pochi mezzi per far fronte gli invasori, li usarono tutti, cominciando da un armamento di carattere psicologico. Gli altoparlanti installati nella Scuola Nazionale di Scienze Medico Biologiche cominciarono a trasmettere un macabro messaggio:

-Pericolo, pericolo. Avvertiamo i soldati che abbiamo rotto i fiaschi in cui si tengono microbi che producono le più terribili malattie. Non vogliamo che nessuno venga contagiato, ma chiunque entri agli edifici senza aver preso un antidoto si ammalerà di lebbra o sifilide e morirà in mezzo a terribili dolori.

L'avanzata delle truppe si fermò. Espressioni di timore e sconcerto spuntavano nei visi dei soldati. Sfortunatamente per gli studenti il paralizzante effetto della loro ingegnosa immaginazione non durò a lungo. Un ufficiale prese una mitragliatrice e fece tacere con i suoi spari i minaccianti altoparlanti. Si diede l'ordine di assalto. Senza nessun entusiasmo i soldati si lanciarono all'attacco. I politecnici li riceverono lanciando loro quanto avevano a portata di mano. Lo scontro fu breve. Precise raffiche di proiettili colpirono tutto quello che presentava alcuna resistenza, lo stesso si trattasse di chiuse porte che di giovanili studenti di entrambi i sessi. Furono necessari due camion dell'esercito per trasportare i cadaveri dei difensori del Casco de Santo Tomas. Non si seppe mai né il numero a cui ammontavano i morti né il destino che si diede ai loro corpi.
Nell'equinozio di autunno del 1968, tale e come succede ogni anno, i poli del nostro pianeta stettero ad uguale distanza del Sole e quindi, la luce e le diverse energie emanate di questo, caddero simultaneamente sui due emisferi della sfera terrestre. In questa occasione, tuttavia, il cosmico evento produrrebbe conseguenze molto diverse dalle solite. La transitoria rottura dell'usuale fascino che la Luna esercita sull'umanità, successa nell'Equinozio di Primavera di quello stesso anno, arrivò fatalmente al suo termine. Dopo sei mesi di impeccabile funzionamento, il prodigioso strumento costruito per gli antichi toltechi in Teotihuacan smise di operare. E un'altra volta, il satellite della Terra riacquistò il suo solito dominio sulle menti degli esseri umani, i quali furono ritornando al suo ordinario stato di coscienza, caratterizzato dall'incapacità di poter cogliere la realtà e di confondere questa con illusorie fantasie.

La planetaria mobilitazione di protesta iniziata nella primavera del 1968, risultante della temporanea sparizione del carcere della Luna, cominciò a disintegrarsi tanto inaspettata e improvvisamente come era apparsa. La stessa cosa in Praga che a Pechino, a Parigi o a Tokyo, l'eco delle tumultuose manifestazioni stava svanendo. In tutti i casi gli sconcertati governi solo azzeccavano a proseguire incolpandosi mutuamente di quell'accaduto: le autorità delle nazioni comuniste accusavano i regimi dei paesi capitalisti - specialmente quello degli Stati Uniti d'America - di essere i promotori degli appena finiti tumulti; a loro volta i governi di questi paesi non cessavano di vociferare sostenendo che i movimenti di protesta erano stati causati da "insidiosi complotti comunisti."

In Messico l'arrivo dell'equinozio d'autunno comporterebbe, logicamente, gli stessi effetti che nel resto del mondo. I primi in percepire l'improvviso cambiamento dei venti furono i brigatisti del Movimento. Integravano le brigate un numero variabile di studenti che di solito non superava i cinquanta. I  loro lavori erano sempre molto diversi: imprimere e distribuire propaganda, dipingere slogan in recinzioni e autobus, raccogliere fondi, organizzare raduni e manifestazioni, eccetera. Dall'inizio stesso del Movimento i brigatisti avevano trovato la formula per guadagnarsi il sostegno popolare. Il segreto del loro successo era molto semplice. Più e più volte ripetevano che l'obiettivo fondamentale del Movimento era quello di raggiungere il risveglio del Messico. Il popolo aveva capito e fatto suo questo proposito, proporzionando il suo totale appoggio per l'adempimento di così elevata impresa.

La missione di risvegliare un essere - lo stesso si tratti di una nazione che di una persona - può essere solo realizzata da coloro che si trovano previamente risvegliati. Chi dorme non può risvegliare nessuno. Il compito di risvegliare il Messico aveva avuto senso per il popolo perché questo si sentiva risvegliato. Smettendo di funzionare la piramide che annullasse per sei mesi la trasognatezza con cui la Luna mantiene soggetta all'umanità, questa ritornò di nuovo al suo solito stato di letargia. Nessun popolo sulla Terra poteva collaborare, da allora, nel compito di cercare di risvegliare la sua nazione. E in questo modo, la consegna che aveva mobilitato a milioni di persone - "riuscire che il Messico risvegli" - si trasformò all'improvviso in una frase vuota che non aveva più senso alcuno.

I brigatisti percepirono immediatamente la subitanea metamorfosi successa nell'anima popolare. Il loro arrivo a fabbriche, parchi e giardini non suscitava l'esaltato entusiasmo che uno o due giorni prima aveva generato in quelli stessi luoghi. Appena alcune persone - e non la solita folla - si avvicinavano ora ad ascoltarli, ricevere la sua propaganda e manifestarli il loro sostegno. Era in realtà una completa mutazione nella sensibilità della maggioranza che era del tutto incomprensibile per i confusi brigatisti.

Naturalmente nel diventare inoperante la consegna, che indicava al Movimento il proposito di lottare per il risveglio del paese, i brigatisti potevano ricorrere - e di fatto è così che facevano - alla spiegazione convenzionale che l'obiettivo di detto Movimento era quello di ottenere che le autorità risolvessero favorevolmente il Pliego Petitorio che fosse a loro presentato all'inizio del conflitto. Le sei proposte a cui si faceva menzione nel Pliego Petitorio erano pienamente comprensibili e ragionevoli, praticamente erano tutti d'accordo che fossero concesse. Nonostante, nessuno stimava che quelle proposte avessero tanta importanza e tanto meno come per dare la vita per loro, ma nemmeno meritavano l'esposizione ad essere colpiti o essere imprigionati per la loro causa.

Pertanto e in vista dell'atteggiamento assunto dal governo - il quale dimostrava con i fatti che, per non sospendere a un capo della polizia e di non effettuare alcune minime riforme legali, era in grado di assassinare innumerevoli persone e di trasformare in caserme tutti i centri di istruzione superiore del paese - la maggior parte della gente fu arrivando alla conclusione che era meglio smettere di sostenere un Movimento i cui dichiarati propositi, cioè i sei punti del Pliego Petitorio, stavano ben al di sotto l'alto costo in vite e in sofferenza che aveva già pagato.

Come se non bastasse, il crescente disinteresse della popolazione verso il Movimento si produceva giusto nei momenti in cui la repressione governativa si scatenava al massimo. Forze militari e di polizia irrompevano in tutta la Repubblica i recinti scolare. Il Consiglio Nazionale di Sciopero era sparso dopo la presa di Città Universitaria e i loro membri erano sottoposti ad un'implacabile persecuzione. Alcuni dei suoi dirigenti erano stati catturati e venivano applicate loro le più sadiche torture.

Staccati dei suoi dirigenti, con i loro soliti centri operativi occupati dalle forze pubbliche e di fronte ad una progressiva indifferenza popolare, i brigatisti insistevano contro tutte le probabilità in portare avanti il Movimento. Ben presto si abbatterebbero su di essi ancora più grandi mali.
Il martedì 24 settembre costituì, senza dubbi, uno dei giorni più felici nella vita del lic. Gustavo Díaz Ordaz. Tutte le notizie che ricevesse in quella data furono favorevoli alla sua causa. Nel pomeriggio ebbe accordi con i segretari della Difesa e delle Finanze. Il generale Marcelino García Barragán lo informò che da nessuna parte del paese esistevano già strutture educative che servissero da rifugio ai teppisti, le scuole in sciopero erano state occupate e migliaia di studenti si trovavano carcerati nei campi militari. Il lic. Antonio Ortiz Mena, segretario delle Finanze e Credito Pubblico, comunicò al presidente che si aveva fermato la fuga dei capitali, sintomo evidente che la gente di denaro stava recuperando la fiducia nella stabilità del regime. La sera del menzionato martedì, il primo mandatario ebbe accordi con il Tenebras e con il segretario di Governo; le notizie di entrambi erano ancora più incoraggianti.

Nei pochi giorni che aveva di essersi reintegrato all'amministrazione pubblica, il Tenebras aveva ideato e avviato un'efficace organizzazione anti-movimento. Contando sull'inestimabile aiuto del signor Fidel Velázquez, eterno leader della Confederazione di Lavoratori del Messico (CTM), aveva creato piccoli gruppi di scontro, incaricati di aggredire i membri delle brigate studentesche che accorrevano alle fabbriche a sollecitare la collaborazione degli operai al Movimento. La relazione delle operazioni realizzate - che il Tenebras presentò quella sera al lic. Díaz Ordaz - permise a questo di rendersi conto di un fatto ancora più importante che gli indubbi successi raggiunti dai gruppi di scontro: gli operai non proteggevano già gli studenti quando questi andavano alle loro fabbriche, soltanto così si potevano spiegare le vittorie che stavano ottenendo "i tenebrosi" sui brigatisti.

L'accordo con il lic. Luis Echeverria Álvarez fu altrettanto riconfortante. Le relazioni arrivate alla Segreteria di Governo dei diversi stati della Repubblica indicavano che da tutte le parti diminuiva giorno per giorno l'appoggio popolare che sostentava al Movimento.

Finendo di ascoltare le gradite notizie rispetto a quello che accadeva all'interno del paese, il lic. Díaz Ordaz allungò e rilassò il suo corpo, estendendosi all'indietro sullo schienale della poltrona. Una smorfia di esultanza invase il severo volto. Con sprezzante inflessione affermò categorico:

-Questo Movimento si è già fermato.

-Grazie alle sue azzeccate misure di ottimo statista - puntò con servile tono il segretario di Governo.

Alla stessa ora in cui il primo mandatario pronunciava la sua lapidaria frase, una volkswagen di colore verde olivo e ammaccato parafango si avvicinava al Distretto Federale avanzando sulla autostrada di Puebla. Tutte le speranze del Messico nella sua sopravvivenza viaggiavano in quella piccola automobile.