Alla ricerca di un viso 
e di un cuore


Don Miguel, il Supremo Guardiano della Tradizione Nahuatl, viveva nella periferia di Malinalco, popolazione dello stato del Messico. La sua vita era, per molti aspetti, del tutto simile a quella di qualsiasi contadino di quella regione. Viveva in un capanno e le manuali faccende proprie della campagna assorbivano molto del suo tempo. I suoi due figli maschi, Miguel ed Emilio, lo aiutavano a coltivare il pezzo di terra i cui prodotti fornivano il loro familiare sostegno. Parallelamente all'esercizio delle loro giornaliere attività agricole, Don Miguel rispettava, rigorosamente, i molti e complessi obblighi che l'imponeva la sua posizione di massimo responsabile della salvaguardia di una millenaria eredità culturale.

L'adattamento di Uriel all'ambiente completamente diverso da quello che era abituato non fu niente facile, ma avvenne tuttavia in meno tempo di quanto si aspettasse. In poche settimane il giovane architetto edificò una modesta ma confortevole casetta vicina al capanno di don Miguel. L'approvvigionamento delle scarse risorse di cui aveva bisogno per sussistere fu l'ultimo dei problemi. Ritornò al suo antico mestiere di maistro di opere. Ben presto gli furono affidate la maggior parte delle riparazioni e costruzioni che si svolgevano non solo in Malinalco, bensì in varie delle popolazioni vicine.

Le quotidiane attività davano inizio con l'alba. Don Miguel era generale di danza conchera e ogni giorno —in collaborazione di una ventina di integranti del suo gruppo tra i quali stava già Uriel— si esercitavano per lo meno due ore in questa attività. Le pratiche di danza si effettuavano di fronte all'antico tempio azteco dei Cavalieri Aquile e i Cavalieri Tigri. Al termine degli esercizi ognuno se ne andava ad adempiere i loro personali obblighi. Don Uriel normalmente non tornava a vedere don Miguel fino al tramonto, quando questo aveva l'abitudine di parlare accanto al suo capanno con i numerosi visitatori che andavano a vederlo. Il suo discorso era in estremo gradito e in questo si trattavano diversi argomenti, ricadendo, il più delle volte, su questioni relative alle conoscenze degli antichi saggi nahuatl ai quali don Miguel dava sempre il nome di "toltechi."

Anche se Uriel riteneva che le lezioni che otteneva attraverso queste discussioni erano in estremo preziose, giunse alla conclusione che quello veramente fondamentale del sistema di formazione a cui era soggetto lo costituiva la danza. Come la stragrande maggioranza dei suoi connazionali, Uriel ignorava tutto per quanto riguarda la danza conchera. Le sue conoscenze in merito non andavano oltre di vedere negli atri delle chiese a gruppi di danzantes, adornati con costumi preispanici, eseguire le sue ritmiche evoluzioni.

Attraverso la pratica degli esercizi di danza, Uriel fu scoprendo con crescente stupore l'esistenza di tutta una tradizione culturale —viva ed operante— che era stata sempre davanti ai suoi occhi, ma alla quale mai aveva potuto osservare e molto meno apprezzare. Per cominciare, lo scopo da perseguire con la danza conchera era l'antitesi stessa di un semplice intrattenimento. Uriel ci mise parecchio prima di rendersi conto che l'ambiziosa finalità di quegli esercizi non era altra che tentare un maggiore "approccio" tra gli esseri umani ed il loro Creatore. I momenti di identificazione mistica con il sacro si raggiungevano solo dopo incessanti sforzi, e la sua durata era solitamente di appena pochi secondi; tuttavia, in quei momenti di totale pienezza in cui si perdeva la nozione del tempo e dello spazio, risultava possibile raggiungere una profonda comprensione di questioni che altrimenti erano completamente incomprensibili. Uriel imparò di più sulla vera realtà del suo paese in qualsiasi di quelle scintille di illuminazione di quanto avrebbe potuto arrivare a sapere in tutta una vita dedicata allo studio dei libri, su identici temi.

Le due ore giornaliere di danza —così come i periodi molto più grandi che si dedicavano a questa le domeniche — erano i soli quotidiani esercizi per tenersi in forma in vista delle solenni occasioni in cui detta danza si praticava. Questo accadeva varie volte all'anno, quando tutti i membri del gruppo del quale don Miguel era generale —in unione di molti altri contingenti sotto il comando di diversi generali e capitani — si concentravano su diversi luoghi del centro del paese. Allora le danze si prolungavano per diversi giorni ed era quando, quasi sempre, si raggiungevano gli istanti di comprensione superiore. I cinque posti che don Miguel considerava più importanti — ed ai quali doveva recarsi a danzare almeno una volta l'anno— erano: Amecameca, Chalma, Los Remedios, il Tepeyac e Tlatelolco.

Contemplare a don Miguel che danzava era un affascinante spettacolo, ognuno dei suoi movimenti evidenziava l'impeccabile padronanza che possedeva di sé stesso e la potente volontà che lo animava. La sua figura corrispondeva all'immagine archetipica del guerriero e la parola che descriveva meglio l'atteggiamento che caratterizzava il suo personale modo di affrontare la vita era la parola "osare".

Fin dai primi giorni della sua permanenza a Malinalco, Uriel cercò di ottenere maggiori informazioni sull'annunciato ritorno di Cuauhtémoc, tema che gli interessava enormemente. Il Supremo Guardiano della Tradizione Nahuatl non rispose a nessuna delle sue domande. Mesi dopo, quando si trovavano in Chalma dedicati ad eseguire per una settimana danze che si prolungavano della mattina alla notte, don Miguel rivelò ad Uriel i trascendentali eventi che stavano per verificarsi nel paese: l'imperatore era rinato e si manterrebbe nascosto in alcuna parte fino a raggiungere i venti anni. Arrivato quel tempo si manifesterebbe pubblicamente. Ciò succederebbe la notte prima all'Equinozio di Primavera dell'anno 1968. Quella notte, che sarebbe fondamentale non solo per il futuro del Messico bensì di tutta l'umanità, Cuauhtemoc arriverebbe a Teotihuacan a condurre una difficile battaglia. Il suo rivale sarebbe la catena di illusorie fantasticherie con la quale la Luna mantiene prigionieri agli esseri umani. Se l'imperatore usciva sconfitto nel decisivo incontro non esisteva già speranza alcuna per il Messico. Se usciva trionfante comincerebbe un autentico rinascimento della prostrata nazione.

Sempre più consapevole della singolare importanza dei tempi in cui gli aveva toccato in sorte di vivere, Uriel incrementò i suoi sforzi avviati ad ottenere il massimo sfruttamento del suo soggiorno a Malinalco. Tuttavia, quando mancava poco più di un mese affinché fossero raggiunti due anni dall'inizio del suo apprendistato, improvvisamente questo giunse al suo termine. Con la sincerità e concisione che gli erano caratteristiche, don Miguel espose le ragioni per le quali aveva deciso di dare per finito il suo insegnamento. Era convinto che Uriel possedeva gli attributi necessari per diventare un Autentico Messicano; tuttavia stimava che non gli sarebbe possibile riuscirci se si atteneva ai metodi toltechi, doveva, pertanto, cercare in altri posti mezzi più adeguati per realizzare il suo proposito.

Sconcertato, Uriel rispose che non aveva né la più pallida idea di dove andare per proseguire la sua ricerca. Don Miguel gli consigliò di indirizzarsi verso le terre maya, lì si era sviluppato nel passato una Tradizione diversa alla Nahuatl ma altrettanto preziosa, magari era questa quella che gli conveniva seguire.

Ci fu una grande festa per salutare Uriel alla quale parteciparono varie centinaia di persone. Il festeggiamento durò fino all'alba e alcuni degli invitati che avevano bevuto in eccesso, dovettero praticamente essere trascinati fuori. Prima di lasciare Malinalco, Uriel donò la casa che aveva costruito ad uno dei figli di don Miguel che stava per sposarsi.
Uriel si stabilì a Mérida ed iniziò una nuova attività per ottenere i necessari mezzi di sussistenza. Ogni mattina si dirigeva a uno dei siti archeologici ed elaborava disegni di alcuni dei suoi monumenti, vendendoli dopo ai turisti. Con grande gioia si rese conto di aver fatto notevoli progressi per quanto riguarda a catturare su carta i sentimenti che prevalevano nelle costruzioni preispaniche perché, sebbene queste non gli rivelavano i suoi più intimi segreti, sembravano almeno disposte a esprimergli qualcosa della loro vera forma di sentire.

Uriel ora sapeva che non poteva fare niente per forzare la sua ammissione come discepolo dell'Autentico Messicano che di sicuro viveva nella zona maya, ma sarebbe lui chi gli farebbe sapere la sua decisione qualora lo giudicasse conveniente. L'atteso incontro si è svolto dopo un mese di giornaliere visite alle rovine. Fu un pomeriggio in Chi Chen Itzá. Uriel portava quasi otto ore elaborando un bozzetto della piramide denominata "Il castello." Contemplando il suo lavoro sentì una grande soddisfazione. Era riuscito ad evidenziare nel disegno che "Il castello" — come tutte le altre costruzioni tolteche costruite nella zona maya —era posseduta da una miscela di sentimenti contraddittori, derivata di sapersi conquistatore e sconosciuto in una terra che non era la propria.

—Quanto per il disegnino?

Uriel si voltò per vedere chi aveva fatto la domanda. Si trattava di un uomo con le caratteristiche e i costumi tipici dei contadini dello Yucatán. Il profilo del suo viso era classicamente maya ed il suo corpo era magro e di scarsa statura. Un intelligente e vivace sguardo scintillava su dei occhi neri e profondi. La sua età oscillerebbe attorno ai cinquantacinque anni.

Uriel non desiderava vendere il disegno ma conservarlo. Non volendo respingere apertamente una possibile offerta di acquisto scelse per dare alla sua opera un prezzo che stimava sarebbe considerevolmente superiore alla capacità economica del presunto acquirente.

—Vale cento pesos —rispose.

Senza dire una parola il contadino mise nella mano dello sconcertato architetto un biglietto dell'importo indicato. Poi, prendendo con rapidi movimenti il foglio di carta, la strinse alcuni istanti contro il suo petto per dopo strapparlo in quattro pezzi che gettò nel suolo.

—Perché l'ha fatto? —inquisì Uriel preda di un sentimento di furia.

—Che non era mio?

—Certo che sì, ma se avesse saputo che lo voleva per distruggerlo non glielo vendo.

—Non fu una vendita, fu un furto. Cento pesos sono mille centesimi. Quello è più di quello che spende la mia famiglia in un mese.

—Se lo trovava così costoso, perché lo comprò? —domandò Uriel sempre più perplesso della piega insolita che stava prendendo la conversazione.

—È che non sopportavo vedere quanto brutto era rimasto il disegno e l'ho comprato per poter romperlo.

—Cosa c'era di male? Mi sembrava che stava abbastanza bene. Lei sa molto di disegno?

—Io non so niente di niente, ma almeno ho occhi per vedere. Non come lei che neanche riuscì a vedere quello.

Mentre diceva questo, la coriacea mano del contadino stava indicando l'ombra che i calanti raggi del Sole proiettavano in quel momento nei nove corpi scaglionati che compongono "Il castello." Stupito, Uriel notò che detta ombra rappresentava chiaramente la figura del serpente piumato, simbolo di Quetzalcoatl. Non poteva essere una semplice coincidenza, bensì di un altro prodigio dell'architettura di cosmiche caratteristiche sviluppata dagli antichi messicani.

Uriel avrebbe dato qualsiasi cosa per essere in grado di catturare nel suo disegno quell'ombra prima che questa scomparisse. Lo sconcertante soggetto sembrò indovinare il suo pensiero. Con veloce gesto introdusse la mano sotto la sua camicia ed estrasse, senza un graffio, il disegno di Uriel.

—Se vuole glielo vendo —affermò in modo un po' scherzoso.

Uriel rimase senza parole per la sorpresa. Chinandosi raccolse del suolo uno dei pezzi di carta strappati. Era in bianco. Si accorse allora che tutto era stato un abile gioco di abilità. L'uomo aveva nascosto sotto la sua camicia il disegno sostituendolo per un foglio in bianco che era quello che aveva rotto.

—Quanto costa? —domandò l'architetto.

—Cento pesos ed un centesimo.

—Eccoli —disse Uriel consegnando la quantità sollecitata, dopo aggiunse —se quando avrò finito il disegno non le sembra così tanto brutto mi piacerebbe regalarglielo. Dove potrei trovarlo?

—A Dzidzantún. Se ci andate chiedete per don Gabriel.

Il contadino si allontanò e Uriel si mise a copiare su carta la singolare ombra che osservava nella piramide. Si sentiva felice. Non tanto perché stava concludendo il migliore disegno che aveva mai fatto, bensì perché era certo di aver trovato il Depositario della Tradizione Maya. Era il 21 marzo 1950.
Don Gabriel, il Supremo Guardiano della Tradizione Maya, viveva in Dzidzantun, una piccola popolazione situata a settantotto chilometri della città di Mérida. Titolare dei diritti di proprietà di un arido appezzamento, otteneva di esso risorse meno che scarse. La fonte principale di reddito proveniva dalle sue attività come illusionista e prestigiatore di piazza. Vagando per fiere e mercati di tutta la regione, eseguiva diversi atti di magia che i suoi numerosi spettatori premiavano con nutriti applausi e alcuna moneta occasionale. In occasioni cambiava di giro e vendeva dolci fatti in casa che sua moglie —già deceduta — aveva insegnato loro figlie ad elaborare. Tutto questo era solo l'aspetto esterno, in realtà la sua vita era consacrata a compiti molto più importanti.

Uriel andò a Dzidzantún il giorno dopo che incontrasse don Gabriel in Chi Chen Itzá. Non lo trovò e dovette ritornare due giorni dopo. L'intervista fu lunga. L'architetto raccontò le sue avventure sulla via che portava percorsa alla ricerca dell'Autentica Messicanità. Concluse mostrando il disegno finito e ribadì la sua intenzione di darglielo a suo ascoltatore se lui lo riteneva accettabile. L'intelligente sguardo di don Gabriel si posò alcuni istanti nell'abbozzo contenuto nella carta, dopo prese questa e l'inchiodò a modo di arredo in una delle pareti della stanza.

— C'è molto da studiare in modo da poter essere sicuro di non sapere nulla —affermò — Se in realtà vuole diventare Messicano seguendo il sentiero che usarono i maya, dovrà decifrare il codice —dicendo questo, le sue espressive mani descrissero un ampio cerchio che apparentemente cercava di comprendere l'intero Universo. —Venite a vivere nel villaggio. Visto che è un architetto potrà fare qualcosa per riparare Santa Chiara. Parleremo con la gente e con coloro che affermano di essere le autorità per ottenere aiuto e permessi.

Costruiti nel potente stile di fortezza che caratterizza all'architettura religiosa dello Yucatan del periodo coloniale, il convento e la chiesa di Santa Chiara in Dzidzantún sono due delle più notevoli costruzioni di quel tempo e luogo. Tempio e convento si trovavano in un pietoso stato di abbandono. Don Gabriel e Uriel si diedero al compito di raccogliere fondi  avviare la sua ricostruzione. L'architetto si trasferì a vivere in convento, adeguando una delle sue diroccate celle come temporanea stanza.

Di nuovo attendeva ad Uriel la sorpresa di constatare che un passato apparentemente dimenticato e morto prendeva vita davanti ai suoi occhi. Conquistata già la piena fiducia di don Gabriel, gli mostrò un giorno il millenario codice che manteneva nascosto in un mascherato nascondiglio esistente nel soffitto della sua umile dimora. Si trattava di un documento per il quale chiunque dei migliori musei del mondo avrebbe pagato volentieri un'abbondante fortuna. Tutta l'insuperabile cosmovisione raggiunta dagli antichi saggi maya era stata cristallizzata in quell'inestimabile tesoro pittografico. Trascorrerebbe un po' di tempo prima che Uriel comprendesse che era in quel codice dove risiedeva il segreto della nascosta sopravvivenza della Cultura Maya.

Tenendo conto le indicazioni di don Gabriel, l'architetto eseguiva complessi compiti volti a riuscire una piena identificazione con alcuni dei geroglifici contenuti nel codice. A tal fine cominciava copiando ripetutamente un particolare geroglifico, poi seguiva un paziente lavoro di settimane impegnate a cercare —attraverso incessanti esercizi di concentrazione e meditazione— di scoprire dentro e fuori di sé quali erano esattamente le energie che il geroglifico simbolizzava. Anche costellazioni ed insetti, alberi e mari, erano concretizzazioni di energie esistenti nell'essere umano. Identificare, comprendere ed incanalare dette energie, risultava possibile quando si dominavano tutte le chiavi necessarie, le stesse che il codice proporzionava a chi sapeva decifrarlo.

In varie occasioni Uriel accompagnò il Supremo Guardiano della Tradizione Maya nei percorsi che questo effettuava per diverse località della zona. Fu in questi percorsi quando Uriel comprese quali erano le importanti pratiche del codice. La vita di intere comunità seguiva essendo governata per le conoscenze contenute in esso. Dopo aver raggiunto una popolazione don Gabriel dialogava con gli anziani del posto, i quali gli chiedevano rispetto alle migliori date per realizzare ogni tipo di eventi, dalle prossime stagioni di semina o il festeggiamento delle nozze delle coppie che desideravano sposarsi. Don Gabriel studiava la copia del codice che portava sempre con sé e dava la sua risposta. Uriel dovette concludere che la spiegazione della sopravvivenza del paese maya era contenuta nelle 25 lamine che integravano quell'inestimabile documento. Detta sopravvivenza era prodotto di un'eccezionale capacità di adattamento alle più diverse circostanze. E la saggezza per raggiungere questo adattamento proveniva direttamente dall'antico codice, il quale continuava proporzionando a un sostanziale nucleo di popolazione una guida appropriata per affrontare i loro quotidiani problemi.

La paziente dedizione di Uriel cominciò ad essere ricompensata. La sua comprensione di alcuni geroglifici maya, o meglio, la sua identificazione con le energie che questi simboleggiano, cresceva di continuo. Ciò comportava concreti progressi in questioni del suo massimo interesse, come era realizzare il suo vecchio desiderio di capire l'architettura preispanica. Templi e piramidi cominciavano finalmente a rivelargli i suoi più nascosti segreti. Per tutto questo Uriel manteneva la speranza che il percorso seguito per i maya per diventare Autentici Messicani — il quale poteva sintetizzarsi nella parola "sapere"— costituisse la via più appropriata per lui. Fu pertanto una spiacevole sorpresa sapere che don Gabriel sosteneva un criterio contrario. A giudizio del depositario della tradizione Maya gli progressi di Uriel, sebbene importanti, non erano prova alcuna che in realtà gli corrispondesse integrarsi pienamente a detta tradizione. Anzi, i quasi due anni che portava di trattare con lui, gli davano le basi sufficienti per poter affermare che doveva andare via al più presto a cercare una nuova via che lo conducesse al suo obiettivo.

Uriel era dispiaciuto di dover andare via di Dzidzantún senza aver concluso i lavori di restauro che gli fossero affidati. Avevano progredito abbastanza i lavori di puntellamento e ricostruzione della chiesa di Santa Chiara, ma in quanto riguardava al convento questo seguiva nella più completa rovina. E fu precisamente nel grande cortile centrale di detto immobile dove i vicini del paese diedero all'architetto una grande festa d'addio. Si cantò, mangiò, ballò e bevve in abbondanza. Vedendo alcuni invitati che si ritiravano mostrando segni di ubriachezza, Uriel, che praticava una rigorosa astensione in materia di bevande alcoliche, si permise esternare la sua sincera disapprovazione al consumo di dette bibite. Un anziano i cui fazioni rivelavano saggezza e serenità, gli rispose dicendo che quanto esiste nella natura può essere una fonte di beneficio o danno per l'uomo, dipendendo dall'intelligente e moderato impiego che ai beni naturali si sappia dare. Uriel considerò quelle parole come l'ultima delle multiple lezioni che ricevesse nelle terre maya. Prima di partire donò a don Gabriel la riproduzione che facesse di ciascuna delle lamine del codice. Si trattava di una copia molto migliore, rispetto quella che comunemente utilizzava il Supremo Guardiano della Tradizione Maya.

Seguendo il consiglio che gli desse don Gabriel quando lo salutò, Uriel se avviò ad Oaxaca a cercare di contattare con l'Autentico Messicano che abitava in quella regione. In qualche modo ora aveva molti più elementi a suo favore per fidarsi del fatto che riuscirebbe ad effettuare detto contatto. Sapeva, per esempio, che nei siti archeologici di considerabile importanza, ed in generale in tutti i posti che gli antichi messicani ritenevano sacri, esiste sempre un Secreto Guardiano, cioè una persona
responsabile della sorveglianza del luogo, con l'obbligo di segnalare qualunque fatto speciale che lì succeda all'Autentico Messicano più prossimo. Don Gabriel li aveva confessato che fu così come aveva saputo, due anni fa, della quotidiana presenza nelle zone archeologiche vicine a Mérida di un individuo che elaborava disegni eccezionali degli antichi monumenti.1

La maggior parte degli abitanti del Messico ignorano quanto si riferisce all'ammirabile lavoro che in difesa del patrimonio nazionale svolgono i Segreti Guardiani delle zone archeologiche. I media diffondono sempre notizie di saccheggi di antichi oggetti perpetrati da bande internazionali che utilizzano per commettere le sue malefatte la più avanzata tecnologia. Si ignora invece ciò che riguarda a quella manciata di umili esseri che senza più risorse che il suo ingegno ed un profondo affetto al nostro passato, stanno conducendo quotidianamente una battaglia disuguale contro i saccheggiatori, riuscendo a frustrare in numerose occasioni — a volte a scapito della sua vita— le loro maligne intenzioni. Se non fosse per l'ammirabile lavoro dei Segreti Guardiani — e data l'indifferenza che hanno manifestato sempre il gran pubblico e le autorità davanti a questo problema— non dubitiamo che già fino alle piramidi sarebbero in territorio straniero.
Il 21 marzo 1952, con le prime luci del giorno, Uriel arrivò a Monte Albán. Non entrò per il luogo designato per iniziare il percorso alle rovine, circondando queste si introdusse alla zona per la parte posteriore. Molto lentamente, misurando con cura ognuno dei suoi passi, diede inizio ad un percorso la cui durata gli risultava impossibile da prevedere. A volte si fermava a un certo punto ed aspettava lì per ore, senza fare nulla in apparenza, dopo continuava il suo percorso a zig-zag attraverso le diroccate costruzioni zapoteche.

Era quasi buio quando Uriel finì il suo percorso. Aveva voglia di saltare di gioia. Aveva potuto comprovare sperimentalmente quale era la vera funzione di quel eccezionale sito. Monte Alban era una macchina gigantesca che trasformava energie cosmiche con uno scopo preciso: propiziare l'armonico funzionamento della natura umana. Sicuramente in lontani tempi era stato il centro terapeutico più avanzato del pianeta. Un sanatorio di corpi e anime al quale arrivavano di appartate regioni esseri ansiosi di ritrovare l'equilibrio perduto.

C'era anche un altro motivo affinché Uriel si sentisse particolarmente ottimista. Stimava che il Segreto Guardiano di Monte Alban aveva dovuto notare che un sconosciuto era riuscito a realizzare con successo il percorso del complicato macchinario. L'Autentico Messicano che a quanto pare viveva a Oaxaca presto sarebbe informato ed era da aspettarsi che non trascorresse molto tempo prima che facesse la sua apparizione. Ed in effetti, così fu. Ciò successe durante la nona visita a Monte Alban, posto dove andava Uriel tutti i giorni. L'architetto studiava gli angoli delle ombre nella denominata "Collinetta J" Le lancette dell'orologio stavano per unirsi in alto dando per concluse le prime dodici ore del giorno. Un intenso caldo prevaleva nell'ambiente.

—Buon giorno.

Il saluto, rivolto a Uriel, era stato formulato da un uomo di non più di quarantacinque anni. Il suo corpo era di bassa statura e di largo torace. Aveva un viso di grosse fazioni e di forma leggermente quadrangolare. I suoi espressivi occhi indicavano una grande bontà.

—Buon giorno —rispose Uriel, presentendo subito davanti a chi si trovava.

—Immagino che lei sta cercandomi. Sono don Rafael.

Uriel strinse la tesa mano, sentendo così facendo che una forte corrente di energia riempiva il suo corpo.
Don Rafael il Supremo Guardiano della Tradizione Zapoteca, viveva in Tuxtepec. Era sposato ed aveva quattro figli maschi e due donne. Era, senza dubbio, il guaritore più prestigioso in tutto lo stato di Oaxaca. Essendo molto profonde le sue conoscenze in materia di erboristica, l'impiego di piante medicinali rappresentava solo una altra delle sue vaste risorse curative. Era un massaggiatore esperto e sapeva utilizzare l'acqua di molte diverse forme per restituire la salute ai suoi pazienti. Di tra tutti i suoi vari rimedi c'era uno in estremo singolare: l'impiego della voce. A seconda della natura della sofferenza, intonava in lingua zapoteca diverse canzoni che considerava contribuivano significativamente a superare la malattia.

Don Rafael non cantava soltanto per guarire, gli piaceva suonare la chitarra e intonare romantiche melodie tanto nella sua nativa lingua come in spagnolo. Ritornando a casa sua a Tuxtepec, accompagnato da Uriel, l'aspettava in questa un giovane compositore desideroso di mostrar loro le sue creazioni musicali. C'erano in esse qualità e sentimento. Uriel si sorprese di scoprire la vasta gamma di emozioni che si sollevavano nel suo spirito ascoltando don Rafael e il giovane compositore cantare in duetto. L'architetto non lo sapeva, ma stava ricevendo già la prima lezione nella nuovo percorso che stava appena cominciando. Due giorni dopo il compositore andò via di ritorno alla città del Messico dove portava a termine una coraggiosa e finora infruttuosa lotta per fare conoscere le sue canzoni. Il suo nome era Álvaro Carrillo.

Uriel rimase a vivere nella casa di don Rafael e divenne il suo assistente. Era un lavoro che dovrebbe proporzionargli preziose esperienze. Il permanente contatto con il dolore e la morte non lo desensibilizzò, ma piuttosto al contrario, svegliò in lui nascoste riserve di generosità e affetto verso i suoi simili. Osservando giornalmente don Rafael nel suo trattamento con i malati, Uriel fu scoprendo quale era il percorso sviluppato per gli antichi zapotechi per diventare Autentici Messicani. Detto percorso poteva essere sintetizzato in una parola incessantemente ripetuta, ma poco praticata nella sua reale dimensione: "amore".

Tempo e luogo erano propizi e Uriel si innamorò. L'evento ebbe luogo nel mese di febbraio 1953. Don Rafael viaggiava spesso per lo stato visitando malati e Uriel lo accompagnava. Nella città di Oaxaca l'architetto conobbe ad una alta e simpatica giovane chiamata Elena. Era originaria di Monterrey. Suo padre era appena stato nominato capo dell'Ufficio Federale delle Finanze Principale a Oaxaca. Tanto il padre come la figlia —che lavorava anche nel menzionato ufficio governativo— erano contabili pubblici ed erano stati assunti dentro la campagna intrapresa dal governo del presidente Adolfo Ruiz Cortines (1952 -1958) per moralizzare gli Uffici Federali delle Finanze.

L'assedio di Uriel alla sua innamorata andò alla vecchia maniera, con l'invio di grandi mazzi di fiori e di serenate frequenti in cui don Rafael e i suoi due figli più grandi davano prova delle suo voci ben timbrate. Ben presto si formalizzò la promessa di matrimonio. I fidanzati scelsero il bel tempio di Santo Domingo e la prima domenica di luglio per realizzarlo. I genitori di Uriel arrivarono alla città di Oaxaca. Altrettanto fecero vari parenti dalla fidanzata che si trasferirono da Monterrey. Il viaggio di nozze fu al porto di Acapulco.

Il nuovo stato civile di Uriel imponeva obblighi che questo seppe far fronte senza trascurare gli obblighi derivanti del suo costante proposito di trasformarsi in un Autentico Messicano. Affittò una casa in Tuxtepec e senza lasciare di aiutare don Rafael nelle cure ai malati, ricominciò le sue attività professionali effettuando le riparazioni e piccoli lavori a lui affidati.

Come già avvenuto nelle due precedenti occasioni, l'apprendistato di Uriel no raggiunse il terzo anno. Percependo che, a causa della sua estrema bontà don Rafael non desiderava comunicargli la brutta notizia, Uriel gli chiese apertamente se in realtà aveva alcuna possibilità di raggiungere il suo obiettivo proseguendo lungo il percorso degli antichi zapotechi. La risposta fu negativa. Don Rafael era giunto alla conclusione che non era la Tradizione che lui incarnava quella che gli corrispondeva all'architetto assumere.

Uriel si trovava di fronte un ostacolo apparentemente insormontabile. Tutto sembrava indicare che non esisteva già nessuna altra tradizione che avrebbe preservato i profondi insegnamenti che occorrono incarnare prima di raggiungere l'Autentica Mexicanità. Don Rafael gli diede un'ultima speranza. Anche se né lui né nessuno che conoscesse possedevano rapporti precisi al riguardo, sapeva che c'era un quarto percorso. Era una nascosta e misteriosa Tradizione che al contrario delle altre tre —le quali inglobavano diffuse comunità conferendo loro una definita identità— non si manifestava con nessun segno esterno che permettesse la sua identificazione. Nonostante, si conoscevano almeno i dati relativi al suo nome e la regione che lo serviva da secolare sede. Era la Tradizione Olmeca, sorta all'inizio dei tempi in quello che erano ora gli stati di Veracruz e Tabasco. Don Rafael consigliò al preoccupato architetto che cercasse di localizzare il portatore della Tradizione Olmeca nella regione de Los Tuxtlas.

La festa d'addio fu in grande. Si sono recati ad essa numerosi vicini, la totalità della nascente clientela professionale di Uriel e una buona parte dei suoi riconoscenti ex pazienti. Prima di partire l'architetto donò a don Rafael tutti i mobili  e gli oggetti che aveva acquisito sposandosi. Fu una buona prova per misurare la forza del loro matrimonio. Elena non protestò. Sapeva già quale era l'ideale di suo marito ed era pronta a collaborare con lui nel raggiungere il suo alto proposito.

Una soleggiata mattina la coppia uscì da Tuxtepec a bordo di un affollato autobus. Il suo destino era del tutto incerto e imprevedibile.