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2 ottobre non si dimentica
Il Testimone aveva sperimentato mille morti senza subire nessuna. Mischiato tra il gruppo di martiri sapendo che non era uno di loro - e sentendo ad ogni secondo che viveva gli ultimi momenti della sua esistenza - aveva potuto osservare in tutti i suoi dettagli il rituale del sacrificio che si officiava nel pre-ispanico altare. La rumorosa presenza degli elicotteri e il tragico presagio delle luci lacerando il cielo. L'arrivo all'ultimo secondo del bambino di rachitico corpo e scintillante sguardo. Il viso illuminato di Regina sventolando la bandiera. La sua commovente proclama del nome sacro. E poi la schiacciante presenza della morte, spietata e terribile.
Senza sapere come, il Testimone si trovò sul pavimento tra un confuso mucchio di sanguinanti cadaveri. Il mortale trepidare della mitragliatrice che sparava dall'elicottero sembrava non finire mai. I proiettili espansivi di grosso calibro piegavano corpi, spezzavano crani e tornavano irriconoscibili i visi di quanti toccavano. Poter sopravvivere a così atroce massacro sembrava del tutto impossibile. Così lo riteneva Il Testimone che sentiva i suoi vestiti inzuppati di sangue e non riusciva a determinare se questa proveniva dal suo proprio essere o delle ferite di chi lo circondavano.
Sonori passi di stivali chiodati. Senza smettere di sparare contro il Chihuahua le truppe si avvicinavano sempre di più all'assediato edificio. Di una delle aperte terrazze dell'immobile si riuscivano ad ascoltare, ad intermittenza, pressanti voci ripetendo sempre le stesse frasi.
-Cessate il fuoco! Smettete di sparare! Qui Battaglione Olimpia!
Non furono le voci provenienti del Chihuahua quelle che riuscirono a zittire le armi. Queste solo si ammutolirono quando l'ordine di farlo partì di militari uniformati. All'inizio dell'operazione ed essendo ferito il generale che la comandava, ufficiali e soldati avevano agito durante la sparatoria per conto proprio, unificati per il comune proposito di sterminare i loro attaccanti. Tranne le contate eccezioni di alcuni ufficiali, gli altri militari che si trovavano in Tlatelolco non erano informati che interverrebbero nell'azione elementi dell'esercito camuffati da civili. La comunicazione tra questi e gli uniformati era stata un fallimento. L'ufficiale del Battaglione Olimpia che aveva al suo carico restare in contatto con il generale Hernández Toledo - attraverso un walkie-talkie - era morto quasi all'inizio dell'operazione, dopo essere stato colpito da uno dei molti migliaia di proiettili che i soldati inviavano dalla piazza contro il Chihuahua. Localizzare il cadavere, riscattare il piccolo dispositivo e tentare di stabilire comunicazione con alcuno dei pochi ufficiali che sapevano della sua esistenza - tutto ciò in mezzo alla sparatoria - non era stato un compito facile per gli "olimpici." Raggiunsero appena in tempo il loro tentativo. Le truppe si disponevano a prendere d'assalto l'edificio quando arrivarono correndo un maggiore e un capitano portando la, da tanto tempo, attesa consegna per i militari senza uniforme:
-Cessate il fuoco. Non sparate, anche quelli della mano con guanto bianco sono dei nostri.
La sparatoria finì. Nei quasi sessanta minuti trascorsi tra lo sparo che ferisse al generale Hernández Toledo e l'ultima pallottola uscita dal fucile di un soldato, l'esercito aveva fatto uso di tutte le armi che disponeva. Il risultato era terrificante. La Piazza delle Tre Culture era letteralmente tappezzata di morti e di feriti. Altrettanto succedeva in tutti i piani dell'edificio Chihuahua. Conclusa la sparatoria, i militari dovevano affrontare ora molteplici problemi per i quali non si erano preparati. L'operazione era stata pianificata - secondo loro - come una semplice manovra volta a riuscire lo sgombero degli assistenti ad un raduno e la cattura di alcuni dirigenti studenteschi, ma invece di ciò era successo un vero e proprio massacro. Non c'era forma di ottenere una veloce attenzione ai feriti e non avevano la minima idea rispetto a quello che bisognerebbe fare con i morti. Il numero di prigionieri, incomparabilmente superiore a tutte le aspettative, esponeva anche problemi di urgente soluzione. Peraltro, prendendo in considerazione che da quando cominciarono gli spari nessuno aveva potuto lasciare il circondato edificio, si doveva supporre che gli attaccanti si trovavano ancora all'interno del Chihuahua, e pertanto, il combattimento poteva riprendere in qualsiasi momento.
Una volta effettuato il collegamento tra i militari uniformati e le forze integrate da soggetti di inguantata mano, si cercò di dare direzione ed ordine alle azioni. Innanzitutto si stabilì l'unità di controllo. Il comando dell'operazione ricadde in due colonnelli, per essere questi gli ufficiali di maggiore gerarchia tra i presenti. I colonnelli si comunicarono via radio con il segretario della Difesa. Questo dispose che a condizione che il signore presidente ordinasse un'altra cosa, i feriti dovevano essere portati all'Ospedale Militare e i morti e prigionieri trasferiti al Campo Militare Numero Uno. Si invierebbero immediatamente a Tlatelolco sufficienti trasporti per poter effettuare detti trasferimenti. Informato che non erano ancora stati localizzati chi attaccarono le truppe, il segretario della difesa concordò con il criterio dei colonnelli, nel senso che si effettuasse una minuziosa perquisizione del Chihuahua e si procedesse alla cattura degli aggressori, i quali dovevano essere morti se offrivano resistenza.
Cominciò la perquisizione. A calci di fucile e spari i soldati costringevano gli ingressi degli appartamenti. Nel loro interno trovavano dantesche scene; morti di tutte le età, feriti dissanguandosi e visi terrorizzati. In diversi punti gli incendi minacciavano di estendersi e dovettero essere combattuti, cosa che ritardò per un tempo l'ispezione delle camere. Gli occupanti degli appartamenti erano costretti ad uscire con le mani in alto e allineati in lunghe file. La revisione avanzava senza ottenere alcun indizio dell'ubicazione degli attaccanti.
Entrando in un appartamento situato al quarto piano, i militari diedero finalmente con una prova che dimostrava, senza dubbio, chi erano stati i loro aggressori.
Non appena si rese conto che la sparatoria cominciava ad incrementarsi e che ciò generava una situazione di pericolo per la sua persona, il Tenebras smise di opprimere il grilletto della mitragliatrice e impartì istruzioni al pilota dell'elicottero affinché si elevasse a considerabile altezza. Non c'era posto migliore per osservare quello che stava accadendo in Tlatelolco. Nella Piazza delle Tre Culture la gente correva da un lato all'altro fino ad essere colpita dai proiettili. L'edificio Chihuahua somigliava il reclinato corpo di un gigante che soffriva gli attacchi di una folla di aggressivi nani. Il fumo di molteplici incendi copriva gran parte dell'edificio.
Nei paraggi di Tlatelolco la gente cominciava a reagire davanti a quello che succedeva nell'unità abitativa. Coloro che erano riusciti a scappare dalla piazza prima che le truppe chiudessero il cerchio, narravano per le strade la tragedia con tremanti voci. Varie centinaia di bambini di una scuola primaria cominciarono a lanciare pietre contro i soldati. Gruppi di persone infiammate decisero di impossessarsi degli autobus, li cosparsero di benzina e dopo di avvicinarsi il più possibile al cordone militare li gettarono contro questo prendendoli fuoco nell'ultimo momento. I soldati rispondevano all'aggressione sparando le loro armi in nutrita scarica. Numerose ambulanze della Croce Rossa e Verde cominciarono ad arrivare, ma veniva negato loro l'accesso sul luogo dell'accaduto.
Osservando dall'aria che cessava la sparatoria in piazza, il Tenebras scese a terra. L'elicottero atterrò nel gazebo dove si alza il monumento a Cuitláhuac sul Paseo de la Reforma. Dopo depositare il suo occupante l'apparecchio tornò a innalzarsi. Brandendo credenziali che l'identificavano come agente speciale della Presidenza della Repubblica, il Tenebras riuscì ad oltrepassare il cerchio delle truppe e raggiungere i loro comandanti. Si presentò davanti a questi come un inviato del presidente che aveva per missione evitare che scappasse uno solo dei membri del gruppo terroristico promotore delle rivolte. Si era già verificato il collegamento tra uniformati e inguantati. Accompagnato da alcuni dei membri della sua banda, l'ex dirigente degli Halcones si incamminò a finire di riscuotere il suo debito. Arrivando accanto al mucchio di cadaveri che si ergeva intorno al pre-ispanico monumento, il Tenebras ordinò a coloro che lo seguivano di fermarsi. Quell'era il momento tanto atteso e desiderava assaporare da solo la sua trionfale vendetta. Allontanando a calci gli inanimati corpi sparsi dappertutto ascese all'altare.
Nell'ampio cerchio di pietra c'era una croce umana. La componevano quattro crivellate figure maschili posizionate in ciascuna delle estremità dell'altare. Esattamente nel centro del monumento stava il corpo dell'Hostess, parzialmente coperta per una bandiera inzuppata di sangue. Al tempo che controllava mentalmente gli insulti che direbbe alla persona che aveva causato la disintegrazione del suo agognato gruppo repressivo, il Tenebras arrivò accanto al cadavere della sua nemica. Decise di scalciarle il viso e cominciò il movimento volto a tal fine ma non lo concluse. Dalle sue labbra spuntò un'esclamazione di stupore. Gli occhi della giovane sembravano rimanere in vita e l'osservavano fissamente. Il suo sguardo non era di rimprovero, ma il contrario, rifletteva interminabili dosi di compassione e di affetto. Una tellurica commozione scosse la, fino a quel momento, insensibile coscienza del Tenebras. Sentimenti mai sperimentati allagavano il suo essere. Per un lungo momento rimase borbottando una inintelligibile richiesta di perdono. Quando finalmente scese dall'altare era già un'altra persona.
Vicino ad una ventina di seguaci del Tenebras erano rimasti aspettando nelle prossimità dell'altare. Puntando verso la vicina pila di cadaveri, uno di loro domandò stranito:
-Che non intendiamo esaminare se sta alcuno con vita per finirlo?
L'interrogato scosse negativamente la testa. Guidato da un tenente si avvicinò a passo veloce un plotone di soldati. Il suo atteggiamento mostrava diffidenza e contenuta furia. Imperativo, l'ufficiale ordinò:
-Seguiteci, i comandanti vogliono parlare con voi.
Plotone e "tenebrosi" salirono al quarto piano del Chihuahua. Durante il tragitto coincisero con altri gruppi di soggetti di inguantata mano ai quali accompagnavano anche soldati di diffidenti sguardi. Arrivarono ad un appartamento dove si trovavano i due colonnelli circondati di numerosi ufficiali.
-È lei il dirigente di tutto questo gruppo di agenti speciali? -domandò un colonnello rivolgendosi al Tenebras.
-Sì, sono io.
-Abbiamo già controllato tutto l'edificio - spiegò il colonnello con voce che si tornava minacciante per secondi -. Non abbiamo catturato a nessuno dei cecchini che ci hanno attaccato, ma invece abbiamo trovato questa robaccia.
Dopo aver affermato quanto precede il militare diede un brusco spintone ad una porta, aprendosi questa lasciò vedere il distrutto interno di una camera nella quale apparentemente era esplosa la cannonata di un carro armato. Sei esanimi e sfibrati corpi giacevano irrigati per la stanza. Due dei morti tenevano in mano ancora delle mitragliatrici, gli altri quattro avevano lasciato cadere le loro armi al momento della morte. Una grande quantità di bossoli vuoti inondava il suolo, evidenziando il recente uso che si era dato a tali armi. Nella mano sinistra dei sei cadaveri si poteva osservare un visibile guanto bianco.
I lampeggianti sguardi castrensi predicevano tempesta. Ufficiali e soldati tenevano in mano le loro armi con manifesti desideri di un rapido utilizzo. "I tenebrosi" - stretti nei corridoi che conducevano all'appartamento dove erano morti i suoi compagni - riflettevano nei suoi pallidi volti un crescente spavento. Erano da soli e circondati per colleriche e vendicative file di uniformi verdi. Gli altri inguantati - integranti del Battaglione Olimpia - erano già andati via scortando i dirigenti studenteschi prigionieri.
-Sono io chi ha pianificato e diretto l'attacco alle truppe - affermò il Tenebras -. Sono l'unico responsabile di quanto accaduto.
Fu una pubblica ed ultima confessione. Si ascoltarono diversi spari e il Tenebras rotolò sul pavimento con molteplici perforazioni nel suo organismo. Vedendo cadere al suo capo gli inguantati cercarono di fuggire, dando così luogo ad una sparatoria che si generalizzò immediatamente. Militari e "tenebrosi" si crivellavano a bruciapelo. Una trentina dei secondi riuscirono a scappare dal quarto piano e si sparsero per il palazzo. Iniziò la caccia. Un'altra volta il Chihuahua fu minuziosamente ispezionato dalle truppe, le quali sapevano perfettamente in questa occasione quello che stavano cercando.
Da soli o in piccoli gruppi, "i tenebrosi" furono sistematicamente sterminati. Non si salvò nemmeno uno. I suoi corpi si portarono in piazza e si mischiarono con quelli di innumerevoli vittime che la tappezzavano. Prima di farlo li furono tolti la loro bianca identificazione. Il numero di "tenebrosi" morti - includendo il loro capo - ascese a cento uno. Esattamente lo stesso numero di ahuehuetes che ore prima avevano offerto le loro vite nel Bosco Sacro.
Trascesi già il terrore e la confusione che si generassero nel suo spirito cominciando il massacro, il Testimone aveva avuto abbastanza tempo non solo per notare che non si trovava ferito, ma anche perché invadesse al suo spirito una ferma interezza: forze molto superiori all'umana comprensione stavano agendo in quel dramma, con tanta fortuna che, per quanto illogico che ciò potesse sembrare, la sua vita non era affatto in pericolo mentre si concretizzasse ad adempiere il compito che gli era stato assegnato, e questo era di essere testimone e non attore in detto dramma.
L'assordante tuonare degli spari aveva cessato, essendo sostituito per un ominoso silenzio al quale solo interrompeva di tanto in tanto un rumore ritmato e metallico, prodotto dai tacchetti degli stivali dei soldati che ora occupavano la piazza. Il testimone rimaneva immobile, nello stesso posto dove era caduto nel momento di essere buttato giù dai corpi dei martiri che crollavano sotto l'impatto dei proiettili. Sopra di lui, coprendolo come se fosse un scudo, si trovava il cadavere di un giovane il cui nome ricordava ma il suo cognome no. Si chiamava Luis ed aveva un fratello chiamato Alberto, entrambi erano stati Halcones. Regina aveva accettato solo Luis a far parte del gruppo di martiri, motivando con ciò le proteste del fratello. La Regina del Messico aveva risposto ai reclami di Alberto con una battuta: "Quello che succede è che devi lavorare il doppio per mantenere i tuoi papà e per quel motivo preferisci meglio la morte." Il fatto si era fissato nella memoria del Testimone perché era successo nei giorni in cui Regina non dava già prova troppo spesso del suo solito buon umore, preoccupata com'era di vedere che il tempo trascorreva senza che si riuscisse ad integrare il necessario numero di autentici martiri.
La pioggia che cadeva sulla piazza intensificava l'atmosfera di tragedia che prevaleva in questa. Il Testimone tentò di essere positivo e pensò che l'acqua aiuterebbe a prevenire la diffusione degli incendi che osservava nel Chihuahua. Lunghe file di camion militari erano arrivati alle prossimità dalla piazza. Feriti e prigionieri cominciavano ad essere trasferiti. Cercando possibili feriti, alcuni soldati frugarono senza molta attenzione tra i corpi ammucchiati intorno all'altare, non trovarono nessuno. Il Testimone si fece il morto, socchiudendo gli occhi e dando al suo corpo una totale lassezza.
Aveva smesso di piovere quando si avvicinarono all'altare vari individui in borghese. Uno dei soggetti si allontanò dal gruppo e ascese la piccola scalinata ripartendo calci ai caduti. Aveva occhi sporgenti e un volto che ricordava le fazioni di un rospo, qualcosa di sinistramente ripugnante emanava dalla sua persona. Dopo di rimanere un momento sulla cima del monumento scese di questo. Senza sapere perché, il Testimone sentì che il soggetto di faccia di rospo li sembrava meno ripugnante che attimi prima. Arrivarono correndo alcuni soldati e i civili andarono via con loro.
Intempestive scariche misero fine al silenzio. All'interno del Chihuahua era esplosa una sparatoria il cui strepito arrivava chiaramente fino a dove si trovava Il Testimone. Dapprima gli spari furono molto nutriti e apparentemente concentrati in un unico posto, per poi diminuire considerevolmente di intensità e si disperse per tutto l'edificio. Le detonazioni se ne andarono spegnendo gradualmente fino a scomparire del tutto.
Gruppi di soldati uscivano dall'edificio trascinando cadaveri di civili che depositavano in piazza; alcuni furono gettati nel luogo in cui si trovavano i corpi dei martiri mescolandosi con questi. Come un fagotto che rimbalzando sposta ad un altro, il cadavere che copriva al Testimone fu rimpiazzato da un nuovo arrivato. Era un individuo di circa quaranta anni, di fazioni disgustose e con grossa cicatrice che gli attraversava la faccia. Il suo corpo aveva ricevuto innumerevoli proiettili.
Quante persone erano morte quella notte nella Piazza delle Tre Culture e nell'edificio Chihuahua? Quella era la domanda che si faceva più e più volte Il Testimone, senza trovare il modo di poter scoprire una risposta. La stessa domanda si stavano facendo nello stesso momento molte altre persone, tra esse due forzati spettatori dei violenti eventi.
Juan Núñez era un giovane attore di teatro. Nato nella hacienda di Chimalpa (proprietà dei suoi genitori) situata nelle pianure di Apan nello stato di Hidalgo, aveva deciso quando era ancora quasi un bambino che consacrerebbe la sua esistenza allo studio e rappresentazione del teatro classico europeo. Dopo alcuni anni di intensa preparazione nella Scuola Nazionale di Teatro dell'Istituto Nazionale di Belle Arti (Messico) e nell'Università Complutense di Madrid (Spagna), aveva ottenuto il suo primo lavoro stabile nella Compagnia di Teatro dell'Università Veracruzana (con sede nella città di Jalapa). Aderendosi questa Università al Movimento che cercava di risvegliare l'addormentata coscienza della nazione, l'emergente attore si trasformò in uno dei più entusiastici propagatori di detto Movimento. Continuerebbe ad esserlo quando la Luna ristabilì il suo potere di trasognatezza e l'immensa maggioranza degli esseri umani non capivano già i motivi che avevano spinto le loro azioni di solo alcuni giorni prima. Desiderando proseguire la lotta si trasferì alla città del Messico dove arrivò nel pomeriggio di mercoledì 2 ottobre. Dal terminal degli autobus andò dritto a Tlatelolco, perché sapeva che lì si stava effettuando un raduno.
Quando Juan Núñez arrivò alla Piazza delle Tre Culture il raduno stava per concludere. Un dirigente del Consiglio Nazionale di Sciopero spiegava microfono in mano che era stata sospesa la proiettata manifestazione al Casco de Santo Tomás. Grandi contingenti di truppe si concentravano nelle prossimità della piazza e gli studenti non desideravano che si producesse un incidente che potesse essere usato come pretesto di un'aggressione. Si chiedeva ai partecipanti al raduno di procedere a ritirarsi.
Cercando trovare qualche conoscente, Juan girovagò sulle rive della piazza. Come tutti i presenti osservò con stranezza il verde segnale sorto di un elicottero. Un istante dopo una valanga umana di identico colore si scagliava contro la sprovveduta moltitudine. Diversi soldati batterono Juan con i calci dei loro fucili e passando al di sopra di lui proseguirono la loro avanzata. Si lasciarono sentire forti detonazioni ed alcuni soldati rotolarono per terra. Immediatamente le truppe cominciarono a sparare in tutte le direzioni. Juan tentò di alzarsi ma gli fu impossibile, aveva subito fratture ossee e lacerazione ai legamenti. Immobile e dolorante si trasformò in inorridito spettatore del massacro. Quando questo aveva concluso si chiese quante persone sarebbero morte e quale potrebbe essere il vero significato di un così tragico episodio.
Senza essere maya, il giovane attore possedeva un'innata facilità per i calcoli. Prima di iniziare una funzione gli bastava un sguardo al pubblico per determinare il suo numero con sorprendente precisione. Dopo aver osservato con attenzione i corpi degli esseri umani stesi nella piazza, calcolò che erano quasi tremila. A giudicare dai strazianti lamenti che riempivano l'aria risultava evidente che un'alta percentuale erano feriti e non cadaveri. Si ascoltavano anche angosciate preghiere. Era molto probabile che molte persone non stessero né morte né ferite, ma che avevano scelto di non alzarsi, paurose di ricevere un colpo. In considerazione di tutto questo - al che si aggiungeva il fatto che non era in grado di formulare neanche una supposizione in termini di numero di persone decedute nel Chihuahua - Juan Núñez abbandonò il suo impegno per quantificare la strage. Persisté invece nel suo desiderio di cercare di trovare una spiegazione a quanto accaduto.
Da dove si trovava, il colpito attore poteva vedere l'ammucchiamento di corpi sparsi intorno ad un monumento di pietra. Nella cima dello stesso scoprì una giacente figura femminile. L'immagine di quella donna avvolta in una bandiera su un antico altare e circondata di cadaveri era impressionante al massimo. Juan ebbe la sensazione che quella scena costituiva la chiave per decifrare l'enigma di quanto aveva appena presenziato. La sua sensibilità di artista gli diceva che lì aveva avuto luogo un evento che era qualcosa di molto più complesso di una brutale e feroce repressione, tutto quanto lo circondava possedeva le caratteristiche delle grandi tragedie della storia. Intuì che non potrebbe capire mai quanto accaduto quella notte in Tlatelolco senza transitare prima nelle radici che costituiscono l'essenza del Messico. Fermamente convinto che doveva cambiare il corso che fino ad allora aveva dato alla sua vita, prese la decisione di non studiare più il teatro europeo, tenterebbe invece di addentrarsi nella conoscenza di quello che erano stati le rappresentazioni sceniche nei tempi pre-ispanici. Allo stesso modo, considerò che doveva cambiare anche di cognome per sottolineare la svolta radicale che pensava di fare alla sua esistenza. Non gli fu difficile trovare quale doveva essere il suo nuovo cognome: Allende, parola che significa "al di là." In questo caso quel "al di là" alluderebbe a Tlatelolco, luogo in cui era morto Juan Núñez e nato Juan Allende.
Rodolfo Ruiz Rodríguez era un agente contabile pubblico graduato alla Scuola Superiore di Commercio e Amministrazione dell'Istituto Politecnico Nazionale. Costante e metodico, possessore di un'elevata etica personale e professionale, era riuscito, in base ai suoi sforzi, a trasformare in realtà le sue due principali illusioni: fornire alla sua famiglia di un appartamento proprio - ubicato nel quarto piano dell'edificio 15 Settembre dell'unità abitativa di Tlatelolco - e lavorare in modo indipendente come capo del suo proprio ufficio.
La sera del 2 ottobre, ritornando a casa, il signore Ruiz aveva raggiunto la Piazza delle Tre Culture esattamente nel momento in cui l'esercito si lanciava contro i partecipanti al raduno e questi iniziavano la precipitosa fuga. Avanzando contro corrente, si diresse verso l'edificio 15 Settembre, situato in uno dei fianchi della piazza. Le pallottole piovevano dappertutto e la gente crollava tra urla di panico. Il signore Ruiz non seppe mai come gli fu possibile attraversare la piazza e continuare vivo. In varie occasioni cadde a terra, buttato giù da persone che correvano in direzione contraria alla sua. Quando finalmente arrivò all'edificio salì i quattro piani in frenetica corsa. Le truppe non notavano ancora che gli spari in suo contro provenivano esclusivamente dal Chihuahua, ragione per cui i soldati sparavano in quei primi momenti contro tutti gli edifici che costeggiavano la piazza. Il fragore di vetri rotti accompagnò il signor Ruiz durante la salita al suo appartamento. Si sbagliò due volte di chiave e solo alla terza trovò la giusta e riuscì ad entrare al suo domicilio. Sentì un indescrivibile sollievo nel constatare che la sua famiglia era completa e illesa. Sua madre, moglie e le figlie, si trovavano sdraiate sul pavimento della camera più lontana alla facciata dell'edificio. Si unì ad esse.
Mentre rimaneva nel suolo ascoltando frastuono sempre crescente che producevano ogni tipo di armi, il C.P. Rodolfo Ruiz Rodríguez si sentì pervaso di una singolare responsabilità. Considerò che così come i bilanci che elaborava dovevano riflettere la realtà economica dei suoi clienti nel modo più verace possibile, le circostanze gli avevano riservato l'obbligo di precisare il numero di persone decedute quella sera a Tlatelolco. Qualcuno, un giorno, prenderebbe in considerazione il saldo che lanciasse il tragico bilancio. Non appena si smisero di ascoltare spari il signore Ruiz, disattendendo le suppliche della sua famiglia, si avvicinò discretamente a una delle finestre e cominciò ad osservare quello che succedeva in piazza.
Lo spettacolo era travolgente, non c'era quasi spazio nell'enorme spianata e nell'ampia zona dove si trovavano le rovine pre-ispaniche che non fosse coperto di corpi umani. Circa un'ora dopo la fine della sparatoria cominciarono ad arrivare lunghe file di camion dell'esercito, i quali si stazionarono nei viali più vicini alla piazza. Alcune ambulanze militari furono introdotte in questa e a esse furono portati i feriti, li conducevano gruppi di soldati improvvisati come barellieri. Sotto stretta sorveglianza furono portati anche ai trasporti numerosi prigionieri. Nell'insanguinata piazza rimasero solo i morti. Il signor Ruiz cercò di effettuare il suo conteggio. Non ci riuscì. Il suo angolo di visione non copriva l'area necessaria per questo, né poteva osservare all'interno del Chihuahua. Il numero di persone decedute nel massacro di Tlatelolco rimarrebbe per sempre nel mistero.
Era l'una di notte con quaranta minuti quando cominciò il trasporto di cadaveri ai trasporti militari. L'iniziale decisione rispetto al luogo dove dovevano essere condotti i corpi aveva variato. Conoscendo l'ordine del loro trasferimento al Campo Militare Numero Uno, il presidente la revocò e diede istruzioni che fossero portati direttamente all'Aeroporto Militare di Santa Lucia; lì dovevano essere introdotti, su tutti gli aeroplani di regolare volume che avesse la Forza Aerea. I piloti riceverono istruzioni di volare fino al Golfo del Messico e di lasciar cadere il loro carico umano duecento chilometri fuori costa.
Il presidente fissò due eccezioni al trattamento che dovrebbe darsi alle persone che erano morte in Tlatelolco. I corpi dei soldati morti dovevano essere consegnati ai loro parenti. Altrettanto si doveva fare con i mortali resti di una trentina di civili scelti a caso, perché quello e non un altro sarebbe il numero di morti che ufficialmente si riconoscerebbe come risultato del confronto avuto tra le forze dell'ordine e la partita di indisciplinati che ingenuamente avevano preteso distruggere le istituzioni.
Dalla sua immobile posizione, Il Testimone notò che i cadaveri stavano essendo ritirati. Gruppi di soldati portavano a termine il compito di continuare a condurre gli sconquassati corpi fino ai trasporti militari. A quanto pare questi risultarono insufficienti ed era arrivato un rinforzo di veicoli appartenenti al Servizio di Pulizia dalla città. Una volta depositato in essi il funebre carico, i verdi camion dell'esercito e gli arancioni veicoli del Dipartimento del Distretto Federale si allontanavano veloci. Mantenevano le loro luci spente, come se tentassero con ciò che passasse inavvertita la sua partecipazione nel tragico trasporto.
I soldati arrivarono fino alla pila di cadaveri formata intorno all'antico altare. Vari camion sia dell'esercito come del Servizio di Pulizia erano stati parcheggiati a pochi metri del monumento e a essi furono stati portati i cadaveri. Il Testimone comprese che si avvicinava per la sua persona il momento cruciale, ma era così convinto che niente potrebbe succedergli si svolgeva correttamente la sua funzione, che non sentì nessun timore. Quando una buona parte del mucchio dei corpi che lo circondavano erano stati già ritirati, ascoltò a scarsa distanza alcune voci senza poter vedere ai loro autori:
-Sarebbe ottimo mettere già da parte i trenta civili.
-Sì, voialtri - la seconda voce acquisì un forte tono di comando -. Mettetevi trenta morti in quel camion.
Poco dopo, il Testimone cominciò ad ascoltare un intermittente conteggio ripetuto per diverse voci. Improvvisamente si sentì issato in bilico. Un soldato l'aveva preso per i piedi ed un altro per le braccia. Neppure batté ciglio o mosse un muscolo, il suo esanime organismo era completamente simile a quello dei multipli e inanimati esseri che stavano essendo ritirati dalla piazza. Così come i suoi amici lo "manteaban" nelle piscine dello Sportivo Chapultepec, Il Testimone fu lanciato all'interno di un camion della spazzatura.
-Ventidue! -esclamarono all'unisono una dozzina di voci che tenevano il conto del numero di corpi gettati nel camion.
Il conteggio proseguì fino ad arrivare a ventinove. Due soldati stavano per gettare nel trasporto il cadavere che completerebbe la trentina, quando uno degli ufficiali che sorvegliavano l'operazione li contenne:
No, fermi, migliore che sia quello - affermò segnalando la prostrata figura dell'Hostess coperta dalla bandiera.
Allo stesso tempo che ascoltava la parola "trenta", Il Testimone vide cadere, a meno di un metro di dove si trovava, il corpo della Regina del Messico. La sua impressione fu così grande che per poco non grida. Sorpreso osservò l'incredibile naturalità che prevaleva nelle fazioni di Regina. I suoi grandi e rotondi occhi rimanevano aperti e di essi emanava lo stesso singolare miscuglio di bontà ed energia che aveva caratterizzato sempre il suo sguardo. Unicamente l'enorme ferita che spezzasse il suo cuore evidenziava che la giovane aveva perso la vita in cruento sacrificio.
Il Testimone sentì una enorme voglia di piangere. Il fatto che il cadavere della legittima Sovrana della Nazione fosse stato gettato ad un camion della spazzatura gli risultava un po grottesco, la migliore prova dell'inconcepibile sovversione di valori che prevaleva nel paese. Una improvvisa reazione sorta dal profondo del suo essere gli restituì il morale. Si rese conto che non era il momento di perdere il tempo in lamentele. Niente poteva essere casuale in quella terribile e interminabile notte. Sicuramente doveva avere un nascosto proposito nel fatto che si trovasse nello stesso trasporto che portava il corpo di Regina. Mentre il veicolo avanzava attraverso solitarie strade, Il Testimone pregò con tutta la sua anima di sapere quale era il compito che gli corrispondeva compiere in quelle drammatiche circostanze. Trovò la risposta. Ignorava se gli sarebbe possibile compiere il suo dovere, ma era deciso a tentarlo utilizzando tutti i mezzi alla sua portata.
Il camion si fermò. Immediatamente il Testimone si alzò e di un salto toccò terra. I tre individui che scendevano in quei istanti dalla cabina lo contemplarono con impaurito stupore. Agendo serenamente Il Testimone arrivò fino a loro e prima che si recuperassero della sua sorpresa procedé a dar loro la spiegazione che aveva già mentalmente preparato: aveva assistito al raduno di Tlatelolco, nel prodursi il panico era stato travolto dalla folla; non ricordava più nulla; molto probabilmente era che si fosse colpito nella caduta e perso la conoscenza; l'aveva recuperato poco fa, quando aprendo gli occhi si trovò che viaggiava in un camion in mezzo ad un mucchio di cadaveri, uno dei quali era quello di una grande amica che non aveva nessun parente nella città; portava con sé cinquecento pesos e li darebbe volentieri se lo lasciavano andare, ma aveva bisogno anche del loro aiuto - e saprebbe naturalmente ricompensarli debitamente - per fare in modo che gli fosse consegnato il corpo della sua amica e poter seppellirlo.
I tre soggetti con i quali parlava Il Testimone erano agenti della Segreteria di Governo, dipendenza governativa alla quale il presidente aveva raccomandato il farsi carico di consegnare - a coloro che li reclamassero - i corpi dei trenta civili che ufficialmente erano morti in Tlatelolco. Superando lo stupore che li producesse vedere uscire una persona del mucchio di cadaveri, gli agenti centrarono la sua attenzione nella possibile utilità che il fatto poteva offrirgli. Uno di loro espresse con sarcasmo che niente ostacolava loro sottrarre all'apparso i suoi cinquecento pesos e farlo diventare un prigioniero. Il Testimone replicò con buona logica che di farlo così perderebbero la ricompensa che era disposto a dare se l'aiutavano a recuperare il cadavere della sua amica. Dato che in ogni caso detto corpo dovrebbe essere consegnato, gli agenti stimarono che si presentava per loro una magnifica opportunità di ottenere qualcosa in cambio di niente. Domandarono che a quanto ammonterebbe la loro ricompensa e Il Testimone rispose che portava il suo libretto degli assegni ed era disposto ad estendere un documento per tremila pesos per ciascuno. Gli agenti manifestarono il loro consenso ma fecero conoscere un'ultima condizione: doveva concedere un altro assegno per l'importo di mille pesos all'agente del Ministero Pubblico della Terza Delegazione - di fronte alla quale si trovavano - perché lui sarebbe a chi loro consegnerebbero il corpo affinché detto funzionario lo desse poi all'autore del reclamo.
Il Testimone acconsentì e cominciò a compilare gli assegni. Uno degli agenti si diresse all'interno della Delegazione. Pensando che potrebbe recuperare i corpi dei Quattro Autentici Messicani, il Testimone domandò dove stavano essendo portati tutti gli altri cadaveri delle persone che erano morte in Tlatelolco. I due agenti si guardarono tra di loro e uno di essi, distogliendo lo sguardo, rispose che non c'erano stati più morti di quelli che stavano in quel camion. Il Testimone comprese tutta la portata che aveva quella risposta e si sentì gelare il sangue nelle vene; domandò allora perché avevano portato i corpi a quella Delegazione e non ad un altro posto. Gli risposero che lì si consegnerebbero solo alcuni cadaveri, gli altri si distribuirebbero in altre Delegazioni e nosocomi. In un tono sempre più amichevole e comunicativo, gli agenti spiegarono i motivi di perché dovrebbero effettuare il macabro compito di cospargere i cadaveri per tutta la città. Il governo temeva che quel giorno scoppiasse una rivolta popolare. Coloro che erano spariti dopo di partecipare al raduno di Tlatelolco avevano familiari e amici che li cercherebbero alacremente. Se si fosse sparsa la voce che i corpi dei morti nel raduno stavano essendo consegnati in un solo posto, si concentrerebbero su detto posto un'enorme quantità di gente, la quale poteva passare molto facilmente dell'afflizione alla violenza. Invece, se i cadaveri si distribuivano in diversi posti, si costringeva ai possibili parenti a dover andare gironzolando per tutta la città, evitando così la concentrazione di un'adirata moltitudine.
L'agente che era entrato alla Delegazione ritornò accompagnato dal Ministero Pubblico. Quest'ultimo era un giovane di baffetti che dava segni di un grande nervosismo. Senza fare allusione all'assegno ricevuto, il giovane del baffo chiese al Testimone diversi dati che scrisse su un biglietto, sollecitò anche gli fosse indicato quale era il corpo che si reclamava - diversi poliziotti avevano tirato giù dal camion della spazzatura alcuni cadaveri, tra essi quello di Regina - e promise accelerare i tramiti che sarebbe necessario gestire per procedere alla consegna del corpo. Finalmente consigliò al Testimone di ritornare due ore più tardi, accompagnato dagli impiegati dell'agenzia funeraria che si farebbe carico dell'inumazione.
Uno degli agenti della Segreteria di Governo, adottando un gentile atteggiamento che era a quanto pare sincero, propose al Ministero Pubblico che una pattuglia di polizia portasse al Testimone a casa sua, perché questo presentava un aspetto - con tutti i suoi vestiti tinti in sangue - che poteva causargli difficoltà per ottenere un mezzo di trasporto.
Le prime luci del giorno illuminavano una tesa e traumatizzata città, quando Il Testimone scese dalla pattuglia che lo aveva portato al suo domicilio. Non perse il tempo. Prima di tutto parlò per telefono ad un'agenzia di inumazioni e sollecitò i suoi servizi; diede l'informazione necessaria per iniziare le gestioni del funerale e convenne di recarsi agli uffici dell'agenzia più tardi. Specificò che il seppellimento non si effettuerebbe nel Distretto Federale, ma il corpo doveva essere trasferito quella stessa mattina alla Aldea de los Reyes nello stato del Messico.
Ancora non era passata un'ora e mezza della chiamata telefonica quando Il Testimone - già lavato e con i vestiti puliti - arrivava all'agenzia di inumazioni nella sua opel olimpica. Era pronta già la carrozza e gli impiegati che lo aiuterebbero nella sua penosa missione. Carrozza e opel si diressero verso la Terza Delegazione, ubicata nelle vicinanze del mercato della La Lagunilla. Mentre si avvicinavano a loro destinazione, Il Testimone sintonizzò la radio dell'auto con l'intenzione di ascoltare le notizie. Una stazione trasmetteva le dichiarazioni del segretario della Difesa, secondo queste l'esercito aveva dovuto intervenire la sera prima in Tlatelolco "per soffocare una sparatoria tra due gruppi di studenti" (sic). Il Testimone non sopportò sentire altro e spense la radio. Desiderava raccogliere quanto prima il cadavere di Regina, non tollerava l'idea di immaginarla da sola ed abbandonata in una Delegazione di Polizia.1
1 La straziante immagine che presentava in quei momenti la figura della Regina del Messico - tesa in una lastra di cemento di una camera oscura - è descritta dalla signora Celia Espinosa de del Valle nell'eccezionale libro della scrittrice Elena Poniatowska intitolato La notte di Tlatelolco. La signora Espinosa aveva due figli studenti che non erano ritornati a casa dopo ad assistere al raduno del 2 ottobre. Disperata iniziò la loro ricerca da prima del sorgere del sole del nuovo giorno. Percorrendo la stanza dove si trovavano i cadaveri depositati nella terza Delegazione, poté contemplare il corpo inanimato di Regina. Profondamente commossa, la signora Espinosa si tolse il suo maglione e coprì con questo il petto insanguinato dell'Hostess. Fortunatamente per la signora Espinosa, i suoi figli non erano stati morti bensì solo incarcerati.
Varie centinaia di persone entravano ed uscivano dall'edificio della Delegazione. Nei visi di tutti si poteva leggere una indescrivibile angoscia. Il Testimone e i dipendenti dell'impresa di pompe funebri si fecero largo attraverso pletorici corridoi. Il giovane agente del Ministero Pubblico si trovava sull'orlo dell'isteria. Il suo baffetto era perlato di sudore e con voce acuta ripeteva a quanti lo circondavano che in quel sito non c'erano più cadaveri che quelli che tutti potevano vedere, dovevano, pertanto, continuare la loro ricerca altrove.
Non ci furono maggiori problemi per la consegna del corpo, soltanto un po' di burocrazia. Il cadavere era stato introdotto in un sacco di plastica annodato al collo di cui emergeva solo la testa costellata di sangue. Seguita dall'opel olimpica, la funebre carrozza puntò verso la autostrada di Puebla. Era un giorno nuvoloso ed un'appiccicosa tristezza prevaleva nell'ambiente. Arrivarono alla Aldea de los Reyes. La bara contenente il corpo di Regina fu portata alla casa in cui nascesse. Due contadini cominciarono a scavare lentamente una fossa nel piccolo cimitero del villaggio. Vinto dalla mancanza di sonno e l'esaurimento il Testimone si sdraiò nella stessa stanza dove stava la bara e si addormentò subito. Lo svegliarono per dirgli che la fossa era stata finita e il funerale poteva cominciare. Tutti i residenti del villaggio erano presenti nel cimitero in attesa del funerale. Provenienti del vicino villaggio di Tepetlixpa erano arrivati dei danzanti concheros adornati con le loro pre-ispaniche tenute. Il capitano del gruppo chiese parlare da solo con il Testimone. Era un caro amico di don Miguel e aveva visitato Regina in molteplici occasioni. Spiegò che a suo parere la Regina del Messico non doveva essere sepolta in un cimitero, ma depositata in una nascosta caverna dell'Iztaccíhuatl. Il Testimone fu d'accordo. Tra i due tirarono fuori il corpo di Regina della bara e misero in questa mattoni. Una volta fatta la modifica portarono il feretro al cimitero e procederono al suo funerale.
Il Testimone e i concheros aspettarono nella casa colorata che scendesse la notte. Non appena le tenebre notturne invasero il villaggio, diedero inizio alla salita della montagna. A bordo di un camioncino - che gli era stato prestato ad uno dei concheros - avanzarono una buona distanza per un sentiero sterrato, dopo proseguirono a piedi illuminandosi con le torce. I concheros si alternavano la stuoia in cui era trasportato il corpo di Regina. Vari dei danzantes portavano grossi mazzi di fiori. A mezzanotte arrivarono alla caverna. Era situata in un desolato paraggio parzialmente coperto dalla neve. L'ingresso alla cavità era molto stretta e conduceva ad un lungo e angusto corridoio che finiva in un'ampia stanza di roccia. Fu lì dove si depositò il corpo della Regina del Messico e la coprirono di fiori. I concheros pregarono e danzarono fino all'arrivo dell'alba. L'ingresso alla grotta e al passaggio che conduceva alla stanza di roccia furono accuratamente coperti con grosse pietre. Citlalmina rimase riposando nel seno della sua ciclopica sorella, aspettando un nuovo risveglio per agire un'altra volta a vantaggio del Messico.
Silenziosi e meditabondi scesero fino l'Aldea de los Reyes. Lì si salutarono. I concheros si diressero di ritorno a Tepetlixpa e il Testimone andò a riposare un po' nella casa colorata. Svegliò all'imbrunire. C'era un cielo limpido e senza nuvole. I due vulcani risplendevano nella sua massima bellezza e potere. La luce solare aveva tessuto per essi rossicci e risplendenti mantelli. Il Testimone osservò largamente i due colossi. Non ci mise molto a percepire il loro messaggio. Entrambi erano pienamente risvegliati. Il rituale di sacrificio officiato in Tlatelolco non era stato invano.
Il Testimone salì sulla sua automobile e cominciò a condurla fino alla città del Messico. Nella sua mente si accalcavano un'infinità di riflessioni. Comprendeva molto bene che il futuro immediato del paese non sarebbe stato niente facile. I gravi errori che si venivano commettendo da molto tempo fa avevano continuato ad accumulare le sue conseguenze e queste dovrebbero cominciarsi a pagare molto presto. La devastazione delle risorse naturali effettuata da una popolazione inconsapevole causerebbe enormi sofferenze. Mali anche maggiori sopravverrebbero dall'incompetenza e disonestà che caratterizzavano il sistema di governo. Nonostante, il Testimone sapeva ora che la sopravvivenza del Messico era pienamente garantita. Il Popocatépetl e l'Iztaccíhuatl, i suoi due più antichi, coraggiosi e saggi abitanti, avevano risvegliato e di sicuro troverebbero il modo di riuscire che la nazione recuperasse la sua persa vocazione di grandezza. Era solo una questione di tempo. Il Testimone non poteva determinare di quanto tempo, perché è evidente che la dimensione dello stesso risulta molto diversa a seconda che si tratti di una montagna o di una persona. Stimava, tuttavia, che le nuove generazioni continuerebbero ad acquisire gradualmente una nuova consapevolezza, e che prima che fosse trascorso un secolo, il paese sarebbe popolato da esseri che saprebbero riprendere la strada seguita da coloro che avevano edificato le prodigiose civiltà delle antiche e dimenticate Età di Oro. La luce sorta della notte di Tlatelolco illuminerebbe il sentiero del Messico nel corso dei millenni.
L'opel olimpico lasciò dietro la strada ed entrando alla città proseguì per la calzada Ignacio Zaragoza. Era scesa la notte e il traffico era estremamente lento. Nel obbedire il segnale di un semaforo e fermare il suo veicolo, il Testimone osservò gli occupanti dell'automobile vicina. Erano cinque giovani con l'aspetto di studenti i cui visi riflettevano una marcata espressione di sconcerto. Il Testimone suonò il clacson per attirare l'attenzione dei ragazzi e non appena lo videro fece con le dita la "V" dalla Vittoria. Gli studenti gli risposero immediatamente formulando simultaneamente identico gesto, gli fecero anche segni di uscire dalle corsie centrali e prendere il laterale. Così fece. Dopo di fermare i loro veicoli i suoi occupanti scesero.
I cinque giovani erano membri di una delle brigate che avevano dato voce e forza al Movimento. Un preparatoriano di sveglio sguardo riconobbe al Testimone.
-Lei è uno di quelli che vanno sempre con l'Hostess. È vero che l'ammazzarono in Tlatelolco? Noi non siamo andati, ma alcuni compagni che poterono dare a gambe ci raccontarono che l'avevano vista cadere quando la spararono da un elicottero.
Il Testimone cercò di rispondere ma non poté. Mille immagini si accalcarono nella sua mente e gli fu impossibile articolare parola alcuna. Si rese conto allora quanto difficile gli risulterebbe adempiere alla propria missione di elaborare la testimonianza che spiegasse la verità di quello che è successo.
Uno degli studenti sembrò intuire la causa della confusione che dominava il suo interlocutore:
-Lei era a Tlatelolco? -domandò.
-Sì - rispose con strozzata voce il Testimone.
-È stato orribile, vero? -inquisì di nuovo lo stesso studente.
-Sì.
-Guardi signore - intervenne un altro studente di paffuta figura -, qui portiamo un barattolo ed un pennello per fare una scritta, ma non sappiamo cosa mettere; dopo quello che è successo a Tlatelolco sentiamo che qualsiasi slogan che potessimo dipingere si vedrebbe proprio sciocco. Non vorrebbe scrivere qualcosa?
-Guardi signore - intervenne un altro studente di paffuta figura -, qui portiamo un barattolo ed un pennello per fare una scritta, ma non sappiamo cosa mettere; dopo quello che è successo a Tlatelolco sentiamo che qualsiasi slogan che potessimo dipingere si vedrebbe proprio sciocco. Non vorrebbe scrivere qualcosa?
Il Testimone prese il barattolo di pittura, osservò che questa era di colore rosso e alla sua memoria è venuta l'immagine del sangue che copriva il petto di Regina. Intinse il pennello nel contenuto del barattolo e scrisse in un muro la seguente frase: