La battaglia di Lhasa
Allo stesso tempo che irrompevano con i loro cavalli al galoppo e sciabola in mano per tra le linee cinesi, i khampa recitavano con feroce accento la poesia che dava risposta alla domanda posta dal suo capo:
I khampa sono di ghiaccio e sono in ghiacciai
fulmini e tuoni preannunciano i loro attacchi.
I khampa sono di roccia e sono sulle montagne
fantini prodigiosi cavalcano senza sosta
I khampa non si arrendono perché sono
IL TIBET.
L'attacco a sorpresa colse del tutto alla sprovvista ai cinesi. Attraversando con le loro sciabole quanto uniforme kaki fosse messo davanti a loro, i khampa si impadronirono in un lampo di un piccolo settore dell'ampia linea fortificata che circondava la città. Si trattava, ovviamente, di un trionfo che doveva essere forzosamente effimero, perché non appena reagissero —e cominciavano già a farlo— le migliaia di soldati che li circondavano, i guerriglieri non avevano probabilità di sopravvivere né alcuni minuti. Tuttavia, la pretesa di cercare di rompere l'assedio nemico con le sue scarse forze non era entrato mai negli obiettivi di Tsering: quello che lui cercava era che fosse l'esercito che stava per arrivare chi si incaricasse di farlo.
Utilizzando le mitragliatrici dei nemici che avevano appena liquidato, i khampa cominciarono ad aprire fuoco sull'avanguardia della colonna che si avvicinava. La distanza che li separava era già minima e loro spari avevano la massima efficacia. Un certo numero di invasori cadde per terra prima che avesse il tempo di chiedersi cosa stesse succedendo, ma immediatamente si produsse una reazione, poiché dando per certo che erano caduti in una trappola e che tutte le truppe che avevano davanti erano nemici mascherati, i nuovi arrivati cominciarono a lanciare una furibonda pioggia di proiettili sui membri della linea fortificata, impedendo loro di concretizzare qualsiasi azione di contrattacco volta ad eliminare al piccolo gruppo di guerriglieri conficcati nei loro ranghi.
Questa era proprio l'occasione cercata da Tsering. Approfittando la confusione che manteneva paralizzati ai soldati nemici che dappertutto li circondavano, i khampa saltarono di nuovo sulle loro cavalcature e distribuendo sciabolate a destra e a manca finirono per farsi largo e penetrare nella città.
Senza soffermarsi un attimo i guerriglieri si avventurarono in Lhasa. Il lama cavalcava alla pari di loro, guidandoli attraverso un intricato labirinto di strette stradine. Un gruppo di persone sempre più numerose li acclamavano con febbrile entusiasmo nel vederli attraversare. A quanto pare, l'inaspettata presenza di quella manciata di nomadi che veloci percorrevano la città, costituiva per i suoi disperati abitanti un vivo messaggio di incoraggiamento e di speranza, una prova evidente che il paese delle nevi eterne aveva ancora le loro risorse umane capaci di effettuare le più sorprendenti geste.
Coi suoi cavalli sudaticci per lo sforzo realizzato, i khampa si fermarono davanti alle porte del maestoso Potala; queste si aprirono e il gruppo penetrò fino a una delle scuderie. Tsering ordinò ai suoi uomini non smontare perché desiderava partire immediatamente. Il lama Tagdra Rimpoche si introdusse affrettato all'interno del palazzo e ritornò poco dopo seguito da Regina, dei genitori di questa e del lama Tschandzo Tschampa.
Gli sguardi curiosi di tutti i khampa conversero subito sulla figura della bambina. Quello che videro non li delusi. Anche se Regina aveva solamente undici anni di età —che compiva precisamente in quel giorno, 21 marzo 1959— possedeva già peculiari caratteristiche apprezzabili ad occhio nudo. Senza perdere la semplicità e spontaneità proprie dell'infanzia, i suoi movimenti rivestivano un portamento di vera maestà. Il suo corpo era piccolo e gracile, ricoperto di una vellutata pelle bruna di cui sembrava irradiare un attraente magnetismo. Nel suo bel e ovale viso, incorniciato da nera chioma, emergevano due tratti singolari; un luminoso e permanente sorriso, non esento di una certa giocosità, e delle pupille intensamente azzurre che rivelavano, attraverso scintillanti bagliori, l'esistenza di una potente energia interiore che cominciava appena a manifestarsi.
Con fermo e agile camminare Regina attraversò la scuderia al tempo che i guerriglieri, alzando le loro sciabole, scoppiavano in assordanti acclamazioni. Senza fermare suo camminare la bambina ringraziò le calorose salutazioni alzando le braccia e tirando fuori la lingua con spiritoso gesto, gesto quest'ultimo considerato come una delle massime dimostrazioni di cortesia secondo l'etichetta tibetana.
Numerosi servi avevano sellato in tutta fretta vari dei migliori destrieri delle scuderie del Potala. Regina montò su uno di essi e la stessa cosa fecero i suoi accompagnatori. Tsering diede l'ordine di partenza e il gruppo uscì al galoppo dal palazzo, dirigendosi verso la zona ovest della città, situata all'estremità opposta di quella da cui era arrivata la colonna invasiva.
Ben presto i fantini arrivarono ai bordi di Lhasa, a scarsa distanza del cerchio teso in quel settore della città. Era già notte fonda ed una calma completa regnava nell'ambiente. Tsering inviò tre dei suoi uomini affinché esaminassero le posizioni nemiche per stabilire sia il grado di allerta in cui si trovavano i suoi occupanti come il punto più propizio per tentare la rottura. Gli osservatori ben presto ritornarono portando buone notizie. Le truppe cinese dormivano e le sentinelle sembravano spensierate. Un attacco effettuato nel massimo silenzio —con arma bianca e senza grida di guerra— disponeva di buone probabilità di consentire loro di attraversare le linee nemiche prima che si dovessero verificare in queste una reazione che glielo impedisse.
Il generale Tang, comandante in capo della colonna dell'esercito cinese inviata a Lhasa con la missione di soffocare la rivolta, era un sperimentato militare possessore di un'astuta intelligenza e di un'imperturbabile presenza di spirito. Forgiato non nelle aule di un'accademia bensì nella dura scuola della guerra, aveva scalato le gerarchie da semplice soldato fino a generale, grazie a meriti guadagnati nelle cruente guerre che contro gli eserciti giapponesi e delle milizie di Chiang Kai Shek avevano combattuto le forze comuniste guidate da Mao Tse Tung prima di raggiungere il pieno controllo della Cina.
Al momento della confusione tra i membri della colonna sotto il suo comando —a seguito dell'ingegnosa manovra di Tsering che portasse ai cinesi a spararsi a vicenda— il generale Tang ordinò all'autista del veicolo in cui viaggiava lo portasse fino al posto dove aveva iniziato il combattimento. Arrivando a questo comprese a colpo d'occhio quello che stava succedendo e ignorando il rischio che correva —poiché i proiettili ronzavano dappertutto— percorse le linee delle sue truppe ordinando a grandi voci l'alto al fuoco. Raggiunto il suo impegno andò da solo e a piedi fino alle posizioni delle truppe opposte —di dove partivano ancora alcuni spari— per ripetere i suoi ordini di cessare il fuoco.
Una volta ristabilita la calma, il generale Tang non dispose che la sua colonna riavviasse la marcia e penetrasse nella città. Sapendo che non appena il comandante della guarnizione cinese in Lhasa venisse a conoscenza dell'incidente avvenuto lo comunicherebbe per radio a Pechino —cercando di incolparlo dello stesso perché esistevano tra i due generali vecchi conflitti— preferì prendersi un po' di tempo per cercare di capire con estrema chiarezza la situazione e in base a tale adottare un comportamento adeguato.
Dopo aver ordinato gli fosse servita una tazza di tè, il generale cominciò a sorseggiare lentamente il liquido giallo nel contempo che meditava, con profonda calma, su quale potrebbe essere il motivo che aveva spinto ai khampa a mettersi volontariamente e con tali grandi rischi nell'assediata Lhasa.
Il generale cinese conosceva molto bene la mentalità e il modus operandi dei bellicosi nomadi. I khampa mai si lasciavano assediare e non difendevano mai posizioni fisse, la loro tattica era sempre l'attacco a sorpresa e l'immediata ritirata. Perciò, risultava inspiegabile il comportamento di quel gruppo guerrigliero addentrandosi in una città circondata e la cui difesa era già impossibile. Tuttavia, con sorprendente lungimiranza, il generale Tang dedusse che la soluzione all'enigma chissà si trovasse nell'esistenza di qualche oggetto o persona —come per esempio una venerata reliquia oppure un lama che godesse di speciale rispetto— che i khampa volevano mettere in salvo portandolo fuori di Lhasa. Su questa ipotesi, il militare concluse che i guerriglieri avrebbero cercato di lasciare la città non appena avessero con loro la persona o cosa che stavavano cercando, e che, di essere così, gli era offerta l'opportunità di riscuotere una pronta rivincita del brutto momento che quella squadra di audaci gli aveva fatto passare.
Con sguardo esperto il generale percorse lentamente un piano di Lhasa, cercando di individuare il sito attraverso il quale i khampa cercherebbero uscire dalla città. La sua precedente esperienza come guerrigliero — proveniente dell'epoca in cui lottasse contro gli eserciti nipponici— gli facilitava considerevolmente il compito di pretendere di indovinare le azioni dei suoi rivali. Una volta localizzato sulla mappa il luogo da dove a suo parere i khampa cercherebbero di rompere l'assedio, il generale ordinò il grosso della colonna di proseguire la sua marcia all'interno di Lhasa, mentre lui, di fronte a un battaglione motorizzato, costeggiava la città in tutta fretta per prendere posizioni nel posto scelto.
Portando i loro cavalli della briglia, Tsering e il suo gruppo percorrevano con leggerissimi passi la breve distanza che li separava dalle posizioni nemiche. La nerezza della notte sembrava offrir loro sicura protezione e una totale quiete continuava a prevalere nell'ambiente, Il capo dei nomadi fece un segno e il gruppo fermò suo camminare. I khampa cominciarono a sguainare le loro sciabole, pronti a cadere per sorpresa sugli occupanti dello spazio che richiedevano attraversare per uscire fuggendo di Lhasa. Improvvisamente, nelle posizioni cinesi si accesero una ventina di riflettori la cui luce illuminò i sorpresi guerriglieri. I raggi di luce non arrivarono da soli, seguirono loro assordanti raffiche di fuoco che, provenienti da diversi angoli avevano come unico oggetto il piccolo gruppo incorniciato nella luminosità dei riflettori.
La paternità è un sentimento così potente che persino può arrivare a superare l'istinto di conservazione. Così lo dimostrarono Richard e Citlali i cui movimenti riflessi per proteggere Regina furono più veloci che gli stessi proiettili. Nell'istante stesso in cui i fasci di luce rompevano il buio, entrambi i genitori occultarono con i loro propri corpi quello di sua figlia. La pioggia di proiettili che un secondo dopo si abbattesse sul gruppo colpì in pieno sulla coppia. Il tedesco e la messicana crollarono senza vita.
Con movimenti leggermente ritardati rispetto ai genitori di Regina, i due lama cercarono anche di frapporre tra questa e i proiettili le loro rispettive persone. Il lama Tschandzo Tschampa ottenne il suo obiettivo e il suo corpo, crivellato per innumerevoli impatti, cadde insieme a quelli di Richard e Citlali. Nella sua precipitazione, il lama Tagdra Rimpoche scivolò e rotolò a terra; questo gli salvò la vita, perché gli spari passarono fischiando sopra di lui senza ferirlo.
A rastrelli, il lama arrivò fino al posto dove era Regina, la quale lottava per uscire tra gli insanguinati corpi dei suoi genitori. Al fine di evitare che la bambina si rendesse conto pienamente del funesto spettacolo che la circondava, il lama cercò di coprirle il viso con una mano al tempo che la trainava con l'altra, ma il suo premuroso impegno risultò inutile, poiché Regina aveva visto già i visi inanimati dei suoi genitori e nonostante il logico stordimento che la invadeva, era pienamente consapevole della tragedia che stava accadendo intorno suo. Con il viso contratto in una smorfia di dolore, al di là delle lacrime, la bambina allontanò da sé la mano del lama e si aggrappò disperatamente al corpo di sua madre.
La morte regnava ovunque. La spietata tempesta di fuoco aveva falciato in pochi secondi la vita della maggior parte dei guerriglieri. I cavalli avevano subito la stessa triste sorte dei loro proprietari e quasi tutti agonizzavano tra pietosi nitriti. I pochi destrieri che erano riusciti a salvarsi si disperdevano già in sboccata corsa. Solo uno di loro, il ben addestrato cavallo di Tsering, rimaneva impassibile vicino il suo padrone. Il capo dei khampa si manteneva eretto in mezzo al crescente caos, sfidando i proiettili che sembravano danzare intorno suo senza osare oltrepassarlo. A causa di un proiettile che sfiorasse la sua fronte, il suo viso era coperto di sangue, quel che conferiva un aspetto ancora più impressionante alla sua sfidante figura. Facendo sentire la sua forte voce al di sopra del frastuono della mitraglia, Tsering diede l'unico ordine possibile in quelle circostanze: allontanarsi quanto prima da quel infausto posto.
Soltanto una dozzina di confuse figure poterono eseguire l'ordine di Tsering. Il resto di quello che fosse stato un centinaio di bravi khampa giaceva inerte su pozzanghere di sangue. Il lama Tgdra Rimpoche dovette utilizzare tutte le sue forze per rompere l'abbraccio con cui Regina si manteneva attaccata al corpo della madre. A grande velocità i fuggitivi cercarono la sicura protezione delle rocce circostanti; arrivando a queste non si soffermarono, bensì si addentrarono attraverso le oscure strade di Lhasa verso il Palazzo di Potala.
Stavano avvicinandosi al palazzo quando Tsering marciando accanto al suo cavallo si rese conto che quest'ultimo non era in grado di andare avanti. Le emorragie risultanti delle multipli ferite ricevute avevano avuto effetto e l'animale, dopo un po' di procedere barcollando, giaceva nel suolo con la chiara intenzione di non alzarsi più. Il suo dolente e intelligente sguardo evidenziava l'intensità delle sofferenze che subbiva. Tsering si inginocchiò al suo fianco e gli parlò soavemente, ringraziandolo per tutti i servizi prestati, dopo sparò due colpi nel cervello dell'animale ponendo fine al suo martirio.
La notizia dell'agguato subito dal gruppo di Tsering aveva raggiunto il Potala —la città viveva in una costante tensione e le notizie di quanto accadeva in essa si propagavano con una velocità incredibile—. Le porte del palazzo erano aperte e nell'infermeria dell'edificio tutto era disposto per assistere i feriti, i quali non presentavano per fortuna lesioni di gravità, bensì solo lievi escoriazioni che immediatamente riceverono il trattamento adeguato.
Il lama medico che lavò e bendò la ferita della fronte di Tsering confermò quello che questo supponeva. Il proiettile non aveva danneggiato l'osso, la lesione avrebbe guarito presto lasciando nel suo viso una durevole cicatrice. Esisteva, però, una ferita molto più grave che colpiva il guerriero nel profondo del suo essere: per la prima volta nella sua esistenza, il suo fino ad allora indomito spirito agguerrito era stato frantumato a causa di una sconfitta.
Sentendo profondamente la morte dei suoi compagni di lotta, non era precisamente questo fatto la causa dello scoraggiamento di Tsering, poiché in ultima analisi, i khampa avevano considerato sempre che morire in combattimento era la più dignitosa di tutte le morti. Quello che succedeva era che Tsering nella sua fertile immaginazione, aveva dato per certo che se riusciva a portare a buon fine la missione di salvare una Dakini, la sua impresa comincerebbe ad essere lodata nelle canzoni e poesie e il suo nome rimarrebbe unito ai protagonisti delle antiche gesta eroiche. Essendo stato così vicino a conquistare la gloria e invece di ciò sofferto la peggiore delle sconfitte, era quello che in realtà l'aveva annientato moralmente. Adducendo intensi dolori nel cranio che non sentiva, Tsering chiese di essere spostato dalla spaziosa sala infermieristica ad una stanza oscura e silenziosa. Lì rimase, prostrato su una stuoia e contemplando il soffitto con lo sguardo perso, desiderando che arrivassero quanto prima i cinesi a finire con lui.
La possibilità di un pronto arrivo dei cinesi al Potala non era solo considerata da Tsering; il lama Tagdra Rimpoche inquisì sui guardiani incaricati di custodire il palazzo, ma fu informato che questi avevano lasciato la città la stessa notte in cui uscisse di Lhasa il Dalai Lama. Non esisteva, pertanto, niente che impedisse gli invasori di raggiungere il Potala, distruggere le loro antiche porte con spari di artiglieria e catturare alla pregiata Dakini. Angosciato, il lama cercò Regina per proporle l'immediata uscita dall'edificio.
Regina stava pregando nella piccola cappella dove tante volte lo facesse durante il suo soggiorno in Potala. Sull'altare situato di fronte a lei, il lama poté osservare due rappresentazioni religiose. Una di esse era una tipica tangka tibetana contenente la figura della dea Tara dipinta di giallo. L'altra era del tutto sconosciuta al lama. Era l'immagine di una giovane donna di bruno aspetto i cui fazioni evidenziavano uno strano mistero, perché rivelavano a un stesso tempo una profonda dolcezza ed un'incrollabile forza. Il corpo dell'immagine era circondato di luminosi raggi. Ai suoi piedi si apprezzava una mezza Luna e un bambino dotato di piccole ali dipinte di tre colori: verde, bianco e rosso.
L'atteggiamento di Regina era una concentrazione vicina all'estasi. I suoi espressivi e grandi occhi si mantenevano fissi sulle immagini mentre le sue labbra bisbigliavano a voce bassa una inaudibile preghiera. Anche se il suo viso continuava riflettendo l'intenso dolore che l'assillava per la recente perdita dei loro genitori, si sprigionava dalla sua devota figura quella poderosa forza che possiedono tutti quelli che veramente confidano nella possibilità di ricevere aiuto di piani superiori al puramente umano.
Non osando interrompere le preghiere della bambina, il lama estrasse di tra le sue rosicchiate vesti un lungo rosario buddista e cominciò, a sua volta, a pregare con fervore davanti ad entrambe le immagini, implorando dall'alto la salvazione della piccola Dakini.
Il generale Tang ricevé compiaciuto il rapporto che riguardo il combattimento gli rendesse il suo subordinato: ottanta otto khampa erano stati abbattuti, tra i cadaveri raffigurava anche quello di un lama e quelli di una coppia di stranieri: soltanto alcuni guerriglieri erano riusciti a fuggire dalla trappola tesa in suo contro.
Nascondendo la sua soddisfazione sotto il costume di immutabile impassibilità che gli era caratteristico, il militare cinese ordinò gli fossero mostrati i corpi del lama e gli stranieri. Esaminandoli, dedusse che si trovava davanti al cadavere di un religioso di considerabile importanza a giudicare dai distintivi che trasportava. I tratti fisici dello straniero gli fecero supporre che si trattava di un europeo o di un nordamericano. Non riuscì, invece, ad elaborare nessuna ipotesi sulla nazionalità della donna, poiché sebbene le sue fazioni avevano caratteristiche simili a quelle di una buona parte degli abitanti del Tibet e l'India, possedevano anche differenze indefinibili ma importanti. In ogni caso, la presenza di quelli tre estranei tra i guerriglieri gli portò a confermare la sua ipotesi, nel senso che questi irruppero nella città con l'unica intenzione di tirar fuori di Lhasa a quelle persone. Perciò, concluse, era riuscito a frustrare il proposito che incoraggiasse ai khampa.
Riflettendo su qual potrebbe essere il luogo dove erano andati a rifugiarsi i guerriglieri sopravvissuti, il generale stimò che l'ipotesi più probabile era che si trovassero nel Palazzo di Potala. Stava già per ordinare alle sue truppe ad andare immediatamente a detto sito quando ricordò che, di sicuro, il comandante in capo delle truppe cinesi in Lhasa aveva reso già un rapporto a Pechino incolpandolo della rottura dell'assedio riuscita dai khampa.
Il generale Tang non aveva raggiunto il suo elevato grado solo a seguito delle sue innegabili qualità come militare, possedeva anche un fine istinto politico che gli aveva permesso di sopravvivere e progredire nell'atmosfera satura di intrighi che prevaleva negli circoli superiori del Partito Comunista Cinese.
Ottenuta la rivincita, il politico predominò sul militare. Dopo aver ingerito il fumante contenuto di una tazza di tè e valutare di nuovo la situazione, il generale Tang risolse rinviare per il giorno successivo l'assalto al Potala, e invece di ciò, optò per dirigersi al quartiere dell'esercito cinese nella città, al fine di utilizzare il potente trasmettitore di radio esistente e informare i loro capi a Pechino della maniera in cui era riuscito a scambiare in vittoria il suo iniziale fiasco.
A quanto pare sia l'atteggiamento disfattista di Tsering come il trionfalistico del generale Tang ubbidivano a una identica valutazione dei fatti. Non esisteva, a giudizio di entrambi, forza alcuna che potesse opporsi agli invasori, e pertanto, questi stavano in possibilità di prendere il Palazzo di Potala non appena così lo volessero.
La coincidenza di criteri tra il guerrigliero khampa e il generale cinese si produceva per una causa del tutto inspiegabile: entrambi avevano dimenticato momentaneamente quale era in realtà la forza che durante le sue bellicose vite aveva permesso loro di conquistare le sue più clamorose vittorie. E questa forza stava per fare la sua apparizione quella notte in forma per altro schiacciante.
Abbiamo detto già che la città di Lhasa viveva in costante tensione e i suoi abitanti si informavano istantaneamente di quanto in essa accadeva, utilizzando per ciò tutta quella serie di incredibili canali di comunicazione che riescono a sviluppare i gruppi umani quando lottano per la loro sopravvivenza.
Diffondendosi per la città la notizia che il tentativo di trarre da Lhasa alla Dakini aveva finito in un rotondo fallimento, i suoi abitanti compresero immediatamente l'imminente pericolo in cui si trovava Regina di cadere prigioniera dai cinesi. Ed allora, senza esitazioni, tutto il paese si lanciò alla rivolta.
Carenti non solo di direzione e di piani, ma perfino di armi nella maggior parte dei casi, gli abitanti di Lhasa cominciarono a formare nelle strade gruppi sempre più numerosi i cui membri si trovavano posseduti di una sorta di frenetica disperazione. Educati da millenni in un ambiente che favoriva al di sopra di tutto la venerazione del sacro, gli abitanti della capitale del Tibet si consideravano direttamente responsabili della sicurezza della venerata Dakini che, essendo nata in lontane terre, era stata portata al paese delle nevi eterne in un palese riconoscimento che solo lì le poteva essere data l'istruzione adeguata. D'altra parte, era da tempo che la naturale bontà e simpatia della bambina avevano fatto nascere nei tibetani un affetto per lei superiore al logico rispetto dovuto ad una Dakini. Uscendo da Lhasa il Dalai Lama, non era rimasta nella città una figura per la quale i suoi abitanti sentissero un affetto maggiore che quello che professavano a Regina.
Marciando dietro i pochi che brandivano un arma, i gruppi di infuriati tibetani cominciarono ad incamminarsi da tutte le direzioni verso le posizioni cinese che rimanevano loro più vicine. Arrivando a queste si lanciavano subito all'attacco con temerario lancio e in mezzo al più completo disordine.
Le truppe cinesi che accerchiavano Lhasa dormivano tranquillamente nelle loro guarnite posizioni. Di fronte l'inaspettato attacco reagirono subito, schierando dal primo momento tutta l'efficace destrezza di cui è capace un esercito professionale. I suoi ben piazzati scarichi producevano enormi buchi nelle file degli attaccanti. Tuttavia, questi continuavano sempre avanti, per cui in ogni posto l'assalto popolare derivava in due possibili situazioni, oppure le onde di attaccanti erano integramente spazzate fino all'ultimo dei suoi componenti, oppure alcuni di questi riuscivano ad arrivare fino a dove si trovavano i cinesi, in tal caso si iniziavano feroci lotte corpo a corpo in cui i tibetani cercavano non solo di dare morte ai suoi odiati oppressori, ma anche di impadronirsi del maggior numero di armi per proseguire con esse il combattimento.
Cruenta, tumultuaria e caotica, la lotta tra il popolo di Lhasa e le forze cinesi di occupazione si andò diffondendo in tutto l'ampio contorno che comprendeva l'assedio teso attorno alla capitale del Tibet.
Mentre la battaglia acquisiva minuto per minuto maggiori proporzioni, nel Palazzo di Potala continuava a dominare la calma più completa. Contro i fondati timori di Tsering e del lama Tagdra Rimpoche non sarebbero stati gli spari dell'artiglieria cinese quelli che aprirebbero le vetuste porte dell'edificio, bensì i deboli tocchi del bastone di un'anziana.
L'interminabile e tragica notte si avvicinava alla sua fine, quando una vecchietta di curva figura raggiunse le chiuse porte del Potala. Davanti alle sue insistenti chiamate finì per accorrere uno dei facchini. La rugosa donna spiegò di essere la nonna del capo guerrigliero rifugiato nel palazzo ed espresse la sua determinazione di vederlo all'istante a fine di esporre un tema di estrema urgenza.
Tsering era ancora prostrato e immerso nel più totale abbattimento, chiedendosi soltanto il perché del ritardo dei cinesi per prendere d'assalto il palazzo. Venendo a sapere della presenza di sua nonna, un vortice di emozioni e ricordi scossero il suo spirito. Orfano da molto piccolo, solamente quella donna aveva saputo offrirgli la necessaria tenerezza che ogni bambino richiede. Affondato come stava nella più profonda depressione, il khampa stimò che sua nonna costituiva in quei momenti l'unico essere sulla terra la cui contemplazione non gli risulterebbe fastidiosa. Con spenta voce autorizzò l'ingresso dell'anziana fino al suo letto.
Con grande sorpresa di Tsering, sua nonna non espresse rimpianto alcuno vedendolo in tale deplorevole stato. Con voce fiacca gli rimproverò che rimanesse sdraiato mentre tutto il paese di Lhasa combatteva gli invasori. In seguito, affermò con deciso tono che pensava di portarsi alla Dakini e che a bastonate le aprirebbe la strada attraverso le linee cinese.
Le parole dell'anziana costituirono una bandiera di fuoco per Tsering. Di un salto si alzò in piedi al tempo che strappava dalla sua testa le bende che la coprivano. Con infuriato gesto si cinse la sciabola e uscì dalla stanza proferendo contro i cinesi i peggiori insulti della lingua tibetana. Oltre a verificare il posto dove si trovava Regina penetrò nella cappella dando lunghe falcate. Il rumore che producevano i pesanti stivali del khampa tirò fuori la bambina dal suo mistico rapimento. Una sola occhiata alla folgorante faccia di Tsering le fece capire che questo avrebbe cercato nuovamente di uscire con lei dalla città. Regina si alzò ed arrivò fino all'altare, prese il piccolo quadro della Vergine di Guadalupe dipinto su metallo e la rappresentazione della dea Tara, e introdusse entrambe le immagini nel sacchetto in cui teneva i suoi documenti di identità e la manciata di diamanti che costituivano l'eredità dei loro genitori. Poi si avvicinò al punto in cui si trovava il guerrigliero e pronunciò una sola parola:
—Andiamocene.
Nuovamente le scuderie del Potala proporzionarono alcuni dei loro magnifici destrieri. Regina e il lama Tagdra Rimpoche montarono frettolosi e lo stesso fecero Tsering e la sua dozzina di khampa. Le prime luci dell'alba cominciavano appena a fare la loro comparsa quando il gruppo lasciò il palazzo. In questa occasione Tsering risolse tentare la rottura dell'assedio dal lato sud della città, sia perché era in quella regione dove lo attendeva il resto dei suoi guerriglieri, sia perché desiderava tentare di aprire per il paese di Lhasa una via di fuga per l'India.
Molto presto Regina e il suo piccolo entourage cominciarono a vedere ingrossate le loro file con persone della più diversa condizione che si incamminavano alle posizioni cinese trasportando un variegato arsenale di improvvisate armi. C'erano agricoltori con affilate falci, bambini con frombole e fionde, anziane con coltelli di cucina. In ognuno degli sguardi poteva leggersi quella determinazione che solo si raggiunge quando si è trascesa la paura della morte.
La presenza di Regina svegliava ovunque frenetico entusiasmo. Molto prima di raggiungere la periferia della città, un'enorme folla marciava accanto a lei acclamandola incessantemente. Era la Battaglia di Lhasa —la venerata capitale del Tibet— e i suoi abitanti sentivano che quella piccola Dakini incarnava in quei momenti lo spirito stesso della sua sacra Nazione.
Avvicinandosi ai bastioni nemici, i nuovi arrivati se ne resero conto con stupore che nel combattimento che lì si dichiarava stava partecipando non solo il popolo di Lhasa, bensì quasi tutti gli esseri viventi della città. Greggi di yak con balle di paglia accese nei corpi erano stati lanciati contro le trincee cinese. Numerosi cani pastori tibetani, famosi per la loro ferocia, erano stati aizzati affinché attaccassero agli invasori.
Questo era un vero e proprio pandemonio. Carichi furiosi di yak investendo quanto trovavano sul loro percorso. Assordanti scarichi delle più diverse armi. Gruppi di cani ululando e attaccando come branchi di lupi. Chiuse raffiche di pietre e coltelli volando in aria. Incendi e feriti. Dolore e morte.
L'esperienza guerriera di Tsering gli permise di cogliere immediatamente la situazione e tentare di sfruttare i vantaggi che questa offriva. In virtù del suo migliore armamento e addestramento, le truppe d'invasione erano riuscite a respingere fino ad allora gli attacchi del popolo di Lhasa, inferendo a quest'ultimo un alto numero di vittime; tuttavia, l'incessante persecuzione popolare aveva prodotto il suo effetto. Esausti dopo diverse ore di costante combattere e impressionati dal coraggio e l'indifferenza davanti alla morte che mostravano i suoi attaccanti, i soldati cinesi stavano arrivando al limite della loro resistenza, per sorpassarlo si richiedeva solamente che gli impetuosi attacchi dei tibetani si realizzassero con un minimo di coordinazione e questo fu precisamente il compito che Tsering si propose di realizzare il prima possibile.
Cavalcando sciabola in mano tra la infiammata folla, i khampa impartirono a squarciagola ordini affinché questa si ripiegasse e raggruppasse. Una volta raggiunto il raggruppamento e di conseguenza riconosciuta di fatto la loro autorità nel condurre la lotta, i khampa procedettero a distribuirsi davanti ai variopinti contingenti popolari al fine di concertare la loro azione al momento dell'attacco. Questo non si fece sperare, Tsering diede l'ordine e si lanciò al galoppo seguito da molte migliaia di tibetani i cui volti evidenziavano, nella fermezza delle sue fazioni, un'incrollabile volontà di vittoria.
Niente avrebbe potuto contenere quella valanga e niente la fermò. Le difese cinese si sciolsero come zollette di zucchero in una pentola di acqua bollente. Battaglioni interi gettarono le armi e fuggirono in preda al terrore. Coloro che cercarono di resistere furono letteralmente spazzati via per l'incontenibile valanga umana e di animali che fiondò su di loro. Il cerchio era stato rotto e rimaneva aperta una ampia via di fuga. Il paese in massa si lanciò per questa.
Il generale Tang aveva poco tempo di aver preso sonno quando fu svegliato da uno dei suoi aiutanti. Le relazioni che stavano arrivando di tutti i settori della linea fortificata tesa intorno alla città, risultavano in estremo allarmanti: era esplosa una improvvisa rivolta popolare ed eterogenee moltitudini attaccavano in diversi posti con incredibile furia. Gli ufficiali cinesi sollecitavano in forma urgente l'invio di truppe di riserva per far fronte il sempre crescente numero di nemici.
Tenuto conto delle circostanze, il generale Tang ordinò si desse segnale di avvertimento con oggetto che tutte le truppe sotto il suo comando si preparassero per entrare in azione; nonostante, si astenne di soddisfare immediatamente le richieste che gli facevano di inviare rinforzi a diversi settori della città. Seguendo la sua inveterata abitudine di analizzare e pianificare accuratamente ciascuno dei suoi passi, l'astuto generale cominciò a sorseggiare lentamente il contenuto della sua solita tazza di tè, al tempo che cercava di capire cosa stesse succedendo.
Alla memoria del militare accorse un evento a cui aveva partecipato molto tempo fa, durante l'epoca della chiamata "Lunga Marcia."1 Ricordò che in una certa occasione le forze sotto il comando di Mao Tse Tung erano state sotto assedio e senza apparente possibilità di sfuggire alla trappola in cui si trovavano. Notando il grave rischio che correva il dirigente rivoluzionario, gli abitanti della regione si erano lanciati disarmati e privi di direzione contro le truppe governative, soffrendo come c'era da aspettarsi un terribile massacro, ma quella disperata azione popolare raggiunse il suo scopo: approfittando la confusione per essa generata, Mao e i suoi seguaci —tra i quali si trovava l'allora giovane Tang— erano riusciti a infiltrarsi attraverso le linee nemiche.
1 Il nome "Lunga Marcia" è dato per l'impresa realizzata da Mao Tse Tung e i suoi compagni di armi negli anni 1934-1935, consistente in aver percorso 12.000 chilometri sotto il costante inseguimento delle truppe nemiche, fino a riuscire ad arrivare alle caverne di Paongan dove procederono a fortificarsi e a riorganizzare le loro forze.
Il parallelismo esistente tra quell'evento e quello che ora succedeva era chiaro. Il generale Tang si rese conto che si era sbagliato e che non era nessuno dei due stranieri morti per le sue truppe —né neanche il lama che cadesse accanto a loro— la persona a cui i tibetani stavano cercando di tirar fuori della città. Allo stesso modo, giunse alla conclusione che se tutti gli abitanti di Lhasa si erano lanciati alla lotta finirebbero per rompere il cerchio. Dunque, decise che invece di disperdere le forze sotto il suo comandonel vano tentativo di impedire la rottura, la soluzione migliore era utilizzare le sue truppe in una contro offensiva che, se aveva luogo nel posto e momento giusto, soffocherebbe di colpo ogni rivolta.
Per la seconda volta in poche ore, lo sperimentato sguardo del generale Tang studiò con concentrata attenzione i piani di Lhasa e i suoi paraggi, pretendendo in questa occasione di determinare il luogo più probabile dove i tibetani tenterebbero di forzare l'assedio. Osservando nelle mappe il percorso che partiva della zona sud della città diretto verso la India, concluse che quell'era la via di fuga che per logica cercherebbero di raggiungere i suoi avversari.
Senza perdere più tempo, il generale si mise davanti alle sue truppe e ordinò la sua immediata partenza. Prima di lasciare la caserma diede istruzioni precise ai membri del piccolo ma efficace gruppo di aviatori: dovevano innalzarsi non appena fosse giorno e procedere al bombardamento e mitragliamento di qualsiasi gruppo di tibetani che riuscisse a uscire dalla città.
Illuminati per gli splendori del giorno, le motorizzate truppe cinesi percorsero velocemente la distanza che li separava dal loro obiettivo. Arrivando allo stesso, il generale Tang cominciò a ordinare con la sua consueta abilità la posizione dei diversi tipi di armi, procurando in tutti i casi che queste rimanessero nascoste dietro le sinuosità del terreno. Cannoni, carri armati, mitragliatrici, mortai ed obici, furono adeguatamente situati. Gli invasori si trovavano ai piede di una ripida montagna, a scarsa distanza del largo sentiero che partendo dalla capitale del Tibet conduce al confine con l'India.
Attraverso i suoi cannocchiali, il generale cinese osservò con gioiosa anticipazione del suo sicuro successo il lento avvicinarsi della folla che era riuscita a uscire di Lhasa. Affinché la mortale barriera di fuoco che stava per innescare fornisse il massimo effetto, il generale Tang risolse non dare l'ordine di cominciare a sparare fino a quando i tibetani si trovassero praticamente a bruciapelo.
Andando gioioso e confidato per la sterrata strada, il popolo di Lhasa era già nel centro della trappola tesa dai suoi nemici. Il generale Tang osservò con interesse la figura della bambina che, davanti alla moltitudine, cavalcava su un puledro avendo al suo fianco un robusto khampa e un'asciutto lama. Il rispettoso entusiasmo che generava intorno suo quella bambina risultava evidente, motivo per cui non fu difficile per il comandante cinese dedurre che lei era a chi i tibetani volevano salvare, e pertanto, era quella piccola figura la vera causa e sostentamento della rivolta popolare.
Tirando fuori della sua tasca il fischietto con cui era solito impartire alle sue truppe l'ordine di iniziare il fuoco, il generale Tang si preparò ad alzare il sipario per l'ultimo atto della sanguinante opera alla quale gli storici qualificherebbero come "La battaglia di Lhasa." Il militare si portò il fischietto alle labbra ma non arrivò a usarlo, perché proprio in quel momento intervenne un nuovo e inaspettato contendente. Si trattava della montagna sulla cui base si trovavano imboscate le truppe cinese.
Primo come semplice rumore e in seguito come clamoroso frastuono, il rumore che producevano tintinnando fra di loro molte migliaia di rocce risuonò nelle orecchie dei cinesi come un presagio di annientamento. E infatti, la valanga di pietre di varie forme e dimensioni che a tutta velocità scendevano rotolando per le pendici dalla montagna cominciò a distruggere, a una velocità sorprendente, uomini e armi. I poderosi carri armati di fabbricazione russa su che contava l'esercito cinese —che così buoni servizi prestassero nella Seconda Guerra Mondiale— saltavano frantumati e rimanevano sepolti sotto l'impatto delle enormi rocce che cadevano da un'altezza di varie centinaia di metri. Altrettanto succedeva con i cannoni e le diverse tipologie di materiale bellico che integravano l'arsenale degli invasori, i quali, a loro volta, non subivano un destino migliore che le loro armi.
Tra terrorizate urla che si mescolavano con l'assordante tumulto della valanga, i soldati cinesi cercavano di mettersi in salvo fuggendo alla massima celerità che permettevano loro le sue tremolanti gambe. Per la maggiore parte non ci sono riusciti e perirono schiacciati sotto tonnellate di rocce.
Tra coloro che sono riusciti a rimanere in vita si trovava il generale Tang. Il suo viso non era già una maschera di immutabilità bensì lo specchio dove si rifletteva il più completo sconcerto. Nonostante, mantenne la necessaria presenza di spirito per condurre la fuga dei sopravvissuti, ordinando loro di mantenersi distanti della strada per dove transitavano i tibetani usciti di Lhasa, poiché capiva che quello che rimaneva ancora del suo bastonato esercito non stava in possibilità di sostenere confronto alcuno.
Ricordando le istruzioni impartite ai piloti prima di lasciare la città, il generale alzò gli occhi al cielo con la speranza di vedere sorgere dallo stesso gli apparecchi che lo vendicherebbero della sconfitta subita. Speranza fallita. Le nuvole pure partecipavano alla battaglia e lo facevano, logicamente, a favore del loro paese. Una chiusa coperta di bianche nuvole impediva ogni visibilità dal cielo, motivo per cui gli aviatori erano stati costretti a ritornare a terra senza compiere la missione che fosse loro affidata.
Le migliaia di tibetani che avanzavano per la via che portava al sud avevano osservato, sbalorditi, l'inaspettata valanga e la spaventata fuga delle truppe cinese, accorgendosi allora che erano stati sul punto di cadere in una trappola mortale. Scrutinando con riconoscenti sguardi la montagna il cui opportuno intervento li liberasse dallo sterminio, i tibetani scoprirono sulla sommità di essa ai veri responsabili della loro salvezza.
Eretti sulle scarse protuberanze delle squarciate pendii del gigante roccioso, duecento khampa proferivano entusiasti grida di guerra al contempo che muovevano le sue sciabole a modo di affettuoso saluto ai suoi connazionali.
Tsering riconobbe all'istante le figure che avevano prodotto la valanga che così fatale risultasse per i cinesi: erano i membri della sua guerriglia che erano rimasti ad aspettarlo nei pressi della città. Gioioso fece girare ripetutamente il suo cavallo, per poi lanciarlo al galoppo fino alla base della montagna. Alzando le braccia verso i suoi compagni di lotta, Tsering lasciò sentire una domanda formulata con tutta la forza dei suoi polmoni:
—Dove sono i khampa?
Trasmessa attraverso la limpida aria e riprodotta dagli echi delle montagne, si lasciò ascoltare la risposta che davano all'unisono due centinaia di voci:
Regina stava pregando nella piccola cappella dove tante volte lo facesse durante il suo soggiorno in Potala. Sull'altare situato di fronte a lei, il lama poté osservare due rappresentazioni religiose. Una di esse era una tipica tangka tibetana contenente la figura della dea Tara dipinta di giallo. L'altra era del tutto sconosciuta al lama. Era l'immagine di una giovane donna di bruno aspetto i cui fazioni evidenziavano uno strano mistero, perché rivelavano a un stesso tempo una profonda dolcezza ed un'incrollabile forza. Il corpo dell'immagine era circondato di luminosi raggi. Ai suoi piedi si apprezzava una mezza Luna e un bambino dotato di piccole ali dipinte di tre colori: verde, bianco e rosso.
L'atteggiamento di Regina era una concentrazione vicina all'estasi. I suoi espressivi e grandi occhi si mantenevano fissi sulle immagini mentre le sue labbra bisbigliavano a voce bassa una inaudibile preghiera. Anche se il suo viso continuava riflettendo l'intenso dolore che l'assillava per la recente perdita dei loro genitori, si sprigionava dalla sua devota figura quella poderosa forza che possiedono tutti quelli che veramente confidano nella possibilità di ricevere aiuto di piani superiori al puramente umano.
Non osando interrompere le preghiere della bambina, il lama estrasse di tra le sue rosicchiate vesti un lungo rosario buddista e cominciò, a sua volta, a pregare con fervore davanti ad entrambe le immagini, implorando dall'alto la salvazione della piccola Dakini.
Nascondendo la sua soddisfazione sotto il costume di immutabile impassibilità che gli era caratteristico, il militare cinese ordinò gli fossero mostrati i corpi del lama e gli stranieri. Esaminandoli, dedusse che si trovava davanti al cadavere di un religioso di considerabile importanza a giudicare dai distintivi che trasportava. I tratti fisici dello straniero gli fecero supporre che si trattava di un europeo o di un nordamericano. Non riuscì, invece, ad elaborare nessuna ipotesi sulla nazionalità della donna, poiché sebbene le sue fazioni avevano caratteristiche simili a quelle di una buona parte degli abitanti del Tibet e l'India, possedevano anche differenze indefinibili ma importanti. In ogni caso, la presenza di quelli tre estranei tra i guerriglieri gli portò a confermare la sua ipotesi, nel senso che questi irruppero nella città con l'unica intenzione di tirar fuori di Lhasa a quelle persone. Perciò, concluse, era riuscito a frustrare il proposito che incoraggiasse ai khampa.
Riflettendo su qual potrebbe essere il luogo dove erano andati a rifugiarsi i guerriglieri sopravvissuti, il generale stimò che l'ipotesi più probabile era che si trovassero nel Palazzo di Potala. Stava già per ordinare alle sue truppe ad andare immediatamente a detto sito quando ricordò che, di sicuro, il comandante in capo delle truppe cinesi in Lhasa aveva reso già un rapporto a Pechino incolpandolo della rottura dell'assedio riuscita dai khampa.
Il generale Tang non aveva raggiunto il suo elevato grado solo a seguito delle sue innegabili qualità come militare, possedeva anche un fine istinto politico che gli aveva permesso di sopravvivere e progredire nell'atmosfera satura di intrighi che prevaleva negli circoli superiori del Partito Comunista Cinese.
Ottenuta la rivincita, il politico predominò sul militare. Dopo aver ingerito il fumante contenuto di una tazza di tè e valutare di nuovo la situazione, il generale Tang risolse rinviare per il giorno successivo l'assalto al Potala, e invece di ciò, optò per dirigersi al quartiere dell'esercito cinese nella città, al fine di utilizzare il potente trasmettitore di radio esistente e informare i loro capi a Pechino della maniera in cui era riuscito a scambiare in vittoria il suo iniziale fiasco.
La coincidenza di criteri tra il guerrigliero khampa e il generale cinese si produceva per una causa del tutto inspiegabile: entrambi avevano dimenticato momentaneamente quale era in realtà la forza che durante le sue bellicose vite aveva permesso loro di conquistare le sue più clamorose vittorie. E questa forza stava per fare la sua apparizione quella notte in forma per altro schiacciante.
Abbiamo detto già che la città di Lhasa viveva in costante tensione e i suoi abitanti si informavano istantaneamente di quanto in essa accadeva, utilizzando per ciò tutta quella serie di incredibili canali di comunicazione che riescono a sviluppare i gruppi umani quando lottano per la loro sopravvivenza.
Diffondendosi per la città la notizia che il tentativo di trarre da Lhasa alla Dakini aveva finito in un rotondo fallimento, i suoi abitanti compresero immediatamente l'imminente pericolo in cui si trovava Regina di cadere prigioniera dai cinesi. Ed allora, senza esitazioni, tutto il paese si lanciò alla rivolta.
Carenti non solo di direzione e di piani, ma perfino di armi nella maggior parte dei casi, gli abitanti di Lhasa cominciarono a formare nelle strade gruppi sempre più numerosi i cui membri si trovavano posseduti di una sorta di frenetica disperazione. Educati da millenni in un ambiente che favoriva al di sopra di tutto la venerazione del sacro, gli abitanti della capitale del Tibet si consideravano direttamente responsabili della sicurezza della venerata Dakini che, essendo nata in lontane terre, era stata portata al paese delle nevi eterne in un palese riconoscimento che solo lì le poteva essere data l'istruzione adeguata. D'altra parte, era da tempo che la naturale bontà e simpatia della bambina avevano fatto nascere nei tibetani un affetto per lei superiore al logico rispetto dovuto ad una Dakini. Uscendo da Lhasa il Dalai Lama, non era rimasta nella città una figura per la quale i suoi abitanti sentissero un affetto maggiore che quello che professavano a Regina.
Marciando dietro i pochi che brandivano un arma, i gruppi di infuriati tibetani cominciarono ad incamminarsi da tutte le direzioni verso le posizioni cinese che rimanevano loro più vicine. Arrivando a queste si lanciavano subito all'attacco con temerario lancio e in mezzo al più completo disordine.
Le truppe cinesi che accerchiavano Lhasa dormivano tranquillamente nelle loro guarnite posizioni. Di fronte l'inaspettato attacco reagirono subito, schierando dal primo momento tutta l'efficace destrezza di cui è capace un esercito professionale. I suoi ben piazzati scarichi producevano enormi buchi nelle file degli attaccanti. Tuttavia, questi continuavano sempre avanti, per cui in ogni posto l'assalto popolare derivava in due possibili situazioni, oppure le onde di attaccanti erano integramente spazzate fino all'ultimo dei suoi componenti, oppure alcuni di questi riuscivano ad arrivare fino a dove si trovavano i cinesi, in tal caso si iniziavano feroci lotte corpo a corpo in cui i tibetani cercavano non solo di dare morte ai suoi odiati oppressori, ma anche di impadronirsi del maggior numero di armi per proseguire con esse il combattimento.
L'interminabile e tragica notte si avvicinava alla sua fine, quando una vecchietta di curva figura raggiunse le chiuse porte del Potala. Davanti alle sue insistenti chiamate finì per accorrere uno dei facchini. La rugosa donna spiegò di essere la nonna del capo guerrigliero rifugiato nel palazzo ed espresse la sua determinazione di vederlo all'istante a fine di esporre un tema di estrema urgenza.
Con grande sorpresa di Tsering, sua nonna non espresse rimpianto alcuno vedendolo in tale deplorevole stato. Con voce fiacca gli rimproverò che rimanesse sdraiato mentre tutto il paese di Lhasa combatteva gli invasori. In seguito, affermò con deciso tono che pensava di portarsi alla Dakini e che a bastonate le aprirebbe la strada attraverso le linee cinese.
Le parole dell'anziana costituirono una bandiera di fuoco per Tsering. Di un salto si alzò in piedi al tempo che strappava dalla sua testa le bende che la coprivano. Con infuriato gesto si cinse la sciabola e uscì dalla stanza proferendo contro i cinesi i peggiori insulti della lingua tibetana. Oltre a verificare il posto dove si trovava Regina penetrò nella cappella dando lunghe falcate. Il rumore che producevano i pesanti stivali del khampa tirò fuori la bambina dal suo mistico rapimento. Una sola occhiata alla folgorante faccia di Tsering le fece capire che questo avrebbe cercato nuovamente di uscire con lei dalla città. Regina si alzò ed arrivò fino all'altare, prese il piccolo quadro della Vergine di Guadalupe dipinto su metallo e la rappresentazione della dea Tara, e introdusse entrambe le immagini nel sacchetto in cui teneva i suoi documenti di identità e la manciata di diamanti che costituivano l'eredità dei loro genitori. Poi si avvicinò al punto in cui si trovava il guerrigliero e pronunciò una sola parola:
Molto presto Regina e il suo piccolo entourage cominciarono a vedere ingrossate le loro file con persone della più diversa condizione che si incamminavano alle posizioni cinese trasportando un variegato arsenale di improvvisate armi. C'erano agricoltori con affilate falci, bambini con frombole e fionde, anziane con coltelli di cucina. In ognuno degli sguardi poteva leggersi quella determinazione che solo si raggiunge quando si è trascesa la paura della morte.
Avvicinandosi ai bastioni nemici, i nuovi arrivati se ne resero conto con stupore che nel combattimento che lì si dichiarava stava partecipando non solo il popolo di Lhasa, bensì quasi tutti gli esseri viventi della città. Greggi di yak con balle di paglia accese nei corpi erano stati lanciati contro le trincee cinese. Numerosi cani pastori tibetani, famosi per la loro ferocia, erano stati aizzati affinché attaccassero agli invasori.
Questo era un vero e proprio pandemonio. Carichi furiosi di yak investendo quanto trovavano sul loro percorso. Assordanti scarichi delle più diverse armi. Gruppi di cani ululando e attaccando come branchi di lupi. Chiuse raffiche di pietre e coltelli volando in aria. Incendi e feriti. Dolore e morte.
L'esperienza guerriera di Tsering gli permise di cogliere immediatamente la situazione e tentare di sfruttare i vantaggi che questa offriva. In virtù del suo migliore armamento e addestramento, le truppe d'invasione erano riuscite a respingere fino ad allora gli attacchi del popolo di Lhasa, inferendo a quest'ultimo un alto numero di vittime; tuttavia, l'incessante persecuzione popolare aveva prodotto il suo effetto. Esausti dopo diverse ore di costante combattere e impressionati dal coraggio e l'indifferenza davanti alla morte che mostravano i suoi attaccanti, i soldati cinesi stavano arrivando al limite della loro resistenza, per sorpassarlo si richiedeva solamente che gli impetuosi attacchi dei tibetani si realizzassero con un minimo di coordinazione e questo fu precisamente il compito che Tsering si propose di realizzare il prima possibile.
Cavalcando sciabola in mano tra la infiammata folla, i khampa impartirono a squarciagola ordini affinché questa si ripiegasse e raggruppasse. Una volta raggiunto il raggruppamento e di conseguenza riconosciuta di fatto la loro autorità nel condurre la lotta, i khampa procedettero a distribuirsi davanti ai variopinti contingenti popolari al fine di concertare la loro azione al momento dell'attacco. Questo non si fece sperare, Tsering diede l'ordine e si lanciò al galoppo seguito da molte migliaia di tibetani i cui volti evidenziavano, nella fermezza delle sue fazioni, un'incrollabile volontà di vittoria.
Niente avrebbe potuto contenere quella valanga e niente la fermò. Le difese cinese si sciolsero come zollette di zucchero in una pentola di acqua bollente. Battaglioni interi gettarono le armi e fuggirono in preda al terrore. Coloro che cercarono di resistere furono letteralmente spazzati via per l'incontenibile valanga umana e di animali che fiondò su di loro. Il cerchio era stato rotto e rimaneva aperta una ampia via di fuga. Il paese in massa si lanciò per questa.
Tenuto conto delle circostanze, il generale Tang ordinò si desse segnale di avvertimento con oggetto che tutte le truppe sotto il suo comando si preparassero per entrare in azione; nonostante, si astenne di soddisfare immediatamente le richieste che gli facevano di inviare rinforzi a diversi settori della città. Seguendo la sua inveterata abitudine di analizzare e pianificare accuratamente ciascuno dei suoi passi, l'astuto generale cominciò a sorseggiare lentamente il contenuto della sua solita tazza di tè, al tempo che cercava di capire cosa stesse succedendo.
Alla memoria del militare accorse un evento a cui aveva partecipato molto tempo fa, durante l'epoca della chiamata "Lunga Marcia."1 Ricordò che in una certa occasione le forze sotto il comando di Mao Tse Tung erano state sotto assedio e senza apparente possibilità di sfuggire alla trappola in cui si trovavano. Notando il grave rischio che correva il dirigente rivoluzionario, gli abitanti della regione si erano lanciati disarmati e privi di direzione contro le truppe governative, soffrendo come c'era da aspettarsi un terribile massacro, ma quella disperata azione popolare raggiunse il suo scopo: approfittando la confusione per essa generata, Mao e i suoi seguaci —tra i quali si trovava l'allora giovane Tang— erano riusciti a infiltrarsi attraverso le linee nemiche.
1 Il nome "Lunga Marcia" è dato per l'impresa realizzata da Mao Tse Tung e i suoi compagni di armi negli anni 1934-1935, consistente in aver percorso 12.000 chilometri sotto il costante inseguimento delle truppe nemiche, fino a riuscire ad arrivare alle caverne di Paongan dove procederono a fortificarsi e a riorganizzare le loro forze.
Il parallelismo esistente tra quell'evento e quello che ora succedeva era chiaro. Il generale Tang si rese conto che si era sbagliato e che non era nessuno dei due stranieri morti per le sue truppe —né neanche il lama che cadesse accanto a loro— la persona a cui i tibetani stavano cercando di tirar fuori della città. Allo stesso modo, giunse alla conclusione che se tutti gli abitanti di Lhasa si erano lanciati alla lotta finirebbero per rompere il cerchio. Dunque, decise che invece di disperdere le forze sotto il suo comandonel vano tentativo di impedire la rottura, la soluzione migliore era utilizzare le sue truppe in una contro offensiva che, se aveva luogo nel posto e momento giusto, soffocherebbe di colpo ogni rivolta.
Per la seconda volta in poche ore, lo sperimentato sguardo del generale Tang studiò con concentrata attenzione i piani di Lhasa e i suoi paraggi, pretendendo in questa occasione di determinare il luogo più probabile dove i tibetani tenterebbero di forzare l'assedio. Osservando nelle mappe il percorso che partiva della zona sud della città diretto verso la India, concluse che quell'era la via di fuga che per logica cercherebbero di raggiungere i suoi avversari.
Senza perdere più tempo, il generale si mise davanti alle sue truppe e ordinò la sua immediata partenza. Prima di lasciare la caserma diede istruzioni precise ai membri del piccolo ma efficace gruppo di aviatori: dovevano innalzarsi non appena fosse giorno e procedere al bombardamento e mitragliamento di qualsiasi gruppo di tibetani che riuscisse a uscire dalla città.
Illuminati per gli splendori del giorno, le motorizzate truppe cinesi percorsero velocemente la distanza che li separava dal loro obiettivo. Arrivando allo stesso, il generale Tang cominciò a ordinare con la sua consueta abilità la posizione dei diversi tipi di armi, procurando in tutti i casi che queste rimanessero nascoste dietro le sinuosità del terreno. Cannoni, carri armati, mitragliatrici, mortai ed obici, furono adeguatamente situati. Gli invasori si trovavano ai piede di una ripida montagna, a scarsa distanza del largo sentiero che partendo dalla capitale del Tibet conduce al confine con l'India.
Attraverso i suoi cannocchiali, il generale cinese osservò con gioiosa anticipazione del suo sicuro successo il lento avvicinarsi della folla che era riuscita a uscire di Lhasa. Affinché la mortale barriera di fuoco che stava per innescare fornisse il massimo effetto, il generale Tang risolse non dare l'ordine di cominciare a sparare fino a quando i tibetani si trovassero praticamente a bruciapelo.
Andando gioioso e confidato per la sterrata strada, il popolo di Lhasa era già nel centro della trappola tesa dai suoi nemici. Il generale Tang osservò con interesse la figura della bambina che, davanti alla moltitudine, cavalcava su un puledro avendo al suo fianco un robusto khampa e un'asciutto lama. Il rispettoso entusiasmo che generava intorno suo quella bambina risultava evidente, motivo per cui non fu difficile per il comandante cinese dedurre che lei era a chi i tibetani volevano salvare, e pertanto, era quella piccola figura la vera causa e sostentamento della rivolta popolare.
Tirando fuori della sua tasca il fischietto con cui era solito impartire alle sue truppe l'ordine di iniziare il fuoco, il generale Tang si preparò ad alzare il sipario per l'ultimo atto della sanguinante opera alla quale gli storici qualificherebbero come "La battaglia di Lhasa." Il militare si portò il fischietto alle labbra ma non arrivò a usarlo, perché proprio in quel momento intervenne un nuovo e inaspettato contendente. Si trattava della montagna sulla cui base si trovavano imboscate le truppe cinese.
Primo come semplice rumore e in seguito come clamoroso frastuono, il rumore che producevano tintinnando fra di loro molte migliaia di rocce risuonò nelle orecchie dei cinesi come un presagio di annientamento. E infatti, la valanga di pietre di varie forme e dimensioni che a tutta velocità scendevano rotolando per le pendici dalla montagna cominciò a distruggere, a una velocità sorprendente, uomini e armi. I poderosi carri armati di fabbricazione russa su che contava l'esercito cinese —che così buoni servizi prestassero nella Seconda Guerra Mondiale— saltavano frantumati e rimanevano sepolti sotto l'impatto delle enormi rocce che cadevano da un'altezza di varie centinaia di metri. Altrettanto succedeva con i cannoni e le diverse tipologie di materiale bellico che integravano l'arsenale degli invasori, i quali, a loro volta, non subivano un destino migliore che le loro armi.
Tra terrorizate urla che si mescolavano con l'assordante tumulto della valanga, i soldati cinesi cercavano di mettersi in salvo fuggendo alla massima celerità che permettevano loro le sue tremolanti gambe. Per la maggiore parte non ci sono riusciti e perirono schiacciati sotto tonnellate di rocce.
Tra coloro che sono riusciti a rimanere in vita si trovava il generale Tang. Il suo viso non era già una maschera di immutabilità bensì lo specchio dove si rifletteva il più completo sconcerto. Nonostante, mantenne la necessaria presenza di spirito per condurre la fuga dei sopravvissuti, ordinando loro di mantenersi distanti della strada per dove transitavano i tibetani usciti di Lhasa, poiché capiva che quello che rimaneva ancora del suo bastonato esercito non stava in possibilità di sostenere confronto alcuno.
Ricordando le istruzioni impartite ai piloti prima di lasciare la città, il generale alzò gli occhi al cielo con la speranza di vedere sorgere dallo stesso gli apparecchi che lo vendicherebbero della sconfitta subita. Speranza fallita. Le nuvole pure partecipavano alla battaglia e lo facevano, logicamente, a favore del loro paese. Una chiusa coperta di bianche nuvole impediva ogni visibilità dal cielo, motivo per cui gli aviatori erano stati costretti a ritornare a terra senza compiere la missione che fosse loro affidata.
Le migliaia di tibetani che avanzavano per la via che portava al sud avevano osservato, sbalorditi, l'inaspettata valanga e la spaventata fuga delle truppe cinese, accorgendosi allora che erano stati sul punto di cadere in una trappola mortale. Scrutinando con riconoscenti sguardi la montagna il cui opportuno intervento li liberasse dallo sterminio, i tibetani scoprirono sulla sommità di essa ai veri responsabili della loro salvezza.
Eretti sulle scarse protuberanze delle squarciate pendii del gigante roccioso, duecento khampa proferivano entusiasti grida di guerra al contempo che muovevano le sue sciabole a modo di affettuoso saluto ai suoi connazionali.
Tsering riconobbe all'istante le figure che avevano prodotto la valanga che così fatale risultasse per i cinesi: erano i membri della sua guerriglia che erano rimasti ad aspettarlo nei pressi della città. Gioioso fece girare ripetutamente il suo cavallo, per poi lanciarlo al galoppo fino alla base della montagna. Alzando le braccia verso i suoi compagni di lotta, Tsering lasciò sentire una domanda formulata con tutta la forza dei suoi polmoni:
—Dove sono i khampa?
Trasmessa attraverso la limpida aria e riprodotta dagli echi delle montagne, si lasciò ascoltare la risposta che davano all'unisono due centinaia di voci:
I khampa sono di ghiaccio e sono in ghiacciai
fulmini e tuoni preannunciano i loro attacchi.
I khampa sono di roccia e sono sulle montagne
fantini prodigiosi cavalcano senza sosta
I khampa non si arrendono perché sono
IL TIBET.