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Bazucazo nella coscienza nazionale


Il 27 luglio 1968 costituì una data speciale negli annali dell'Università Nazionale Autonoma del Messico e dell'Istituto Politecnico Nazionale. Essendo sabato e pertanto giorno di riposo, era prevedibile che gli studenti di questi centri educativi non si presenterebbero alle loro aule, ma non fu così.

I giornali, come i notiziari radiofonici e televisivi, non cessavano di diffondere la versione ufficiale degli eventi del giorno precedente: finendo il raduno celebrato nella Alameda Central per omaggiare la Rivoluzione Cubana, i partecipanti all'evento avevano fomentato disordini di tutti i tipi, da vessazioni ai passanti fino a rottura di vetri. Ciò aveva obbligato ad intervenire le forze dell'ordine. Nella loro precipitosa fuga a causa dell'arrivo della polizia, alcuni agitatori si erano rifugiati in strutture universitarie del centro della città. Profondamente rispettose dell'Autonomia Universitaria, le forze di polizia si erano astenute dall'effettuare atto alcuno che potesse interpretarsi come una violazione di tale diritto. Le autorità governative confidavano nel fatto che fossero i propri studenti che cacciassino dalle loro scuole gli agitatori, mettendo di conseguenza felice epilogo al banale incidente.

Abituati, come tutti gli abitanti del paese, ad interpretare le notizie esattamente al contrario  di come queste si comunicavano, gli studenti non ebbero maggiori difficoltà per concludere che la polizia doveva aver attaccato i manifestanti e dopo aggredito le scuole universitarie. I motivati sospetti rispetto a quello che accadesse il giorno prima cominciarono a generare tra gli studenti un sentimento di profonda indignazione. Moltiplicandosi in molte migliaia di giovani, detto sentimento sarebbe stato motivo delle più imprevedibili conseguenze.

Di prima mattina un incessante andirivieni di studenti in tutte le strutture politecniche ed universitarie cominciò ad aver luogo. Desiderosi di conoscere la verità di quanto era accaduto, i giovani formavano strette mischie attorno a coloro che avevano partecipato negli eventi, obbligandoli a ripetere le loro storie una volta dopo l'altra. Ben presto le mischie cominciarono a diventare improvvisate e nutrite assemblee. Il fatto che per prima volta in molti anni si desse nelle scuole una totale assenza di porros, permetteva la libera manifestazione delle più diverse opinioni. Alcuni dei dirigenti delle società degli studenti si erano rivolti alle loro rispettive scuole e immediatamente cercarono di organizzare e dirigere lo sviluppo delle assemblee. In tutti i casi si verificò un ripudio generalizzato all'intervento dei presunti rappresentanti del corpo studentesco. Non contando questi con il consueto sostegno dei teppisti, risultò loro impossibile mantenere per più tempo la farsa della sua pretesa rappresentatività. Rimproverati e fischiati dai loro compagni, finirono per essere ignominiosamente espulsi dalle assemblee.

Nel loro zelo di raccogliere quante più informazioni possibile, le commissioni di studenti passavano da una scuola all'altra scambiando i dati che possedevano. In modo totalmente naturale e spontanea, senza immaginare l'enorme trascendenza che arriverebbe ad avere quello che stavano facendo, i giovani delle due massime istituzioni educative del paese cominciarono a stabilire una crescente comunicazione. Ignorando la legge non scritta, ma che operava di fatto, che ostacolava il libero accesso di studenti universitari a scuole politecniche e viceversa, gruppi ogni volta più numerosi dell'UNAM andavano alle strutture del Politecnico, e nello stesso modo, nutriti contingenti di politecnici entravano a raccogliere informazione negli edifici universitari. La calda accoglienza che si davano reciprocamente operava il prodigio di cancellare in minuti lunghi anni di rivalità e diffidenze. La machiavellica politica ufficiale che manteneva divisi universitari e politecnici saltò per aria  nella luminosa mattina di quel sabato di luglio.

I posti ai quali le commissioni studentesche accorrevano in maggiore numero erano la Vocacional Cinque e la Scuola Nazionale Preparatoria. Chi visitavano queste scuole uscivano da esse portando qualcosa di più che semplice storie su recenti eventi. Le immagini che potevano osservare parlavano da sole. I finestroni e gli interni della Vocacional Cinque sembravano aver subito gli effetti di un ciclone. La strada di San Ildefonso somigliava quella di alcuna città dominata dalla rivolta, con barricate e resti di oggetti bruciati sparsi dappertutto. La barriera poliziesca che ostacolava l'accesso allo Zocalo era stata considerevolmente rafforzata. Membri della Polizia Giudiziale, tanto della Federale come quella del Distretto, si erano uniti ai granaderos e agli agenti della Federale di Sicurezza. Gli studenti li osservavano da lontano e non smettevano di propinarli sonori fischi.

Con il progredire della giornata gli studenti furono raccogliendo informazione più che sufficiente su quanto accaduto. In base a questa le assemblee -riunite in modo permanente in un buon numero di scuole- cominciarono a prendere decisioni: radicale disinformazione di tutte le organizzazioni della comunità studentesca, immediata e democratica elezione di autentici delegati emersi delle proprie assemblee. Cercando differenziare anche nel nome le nuove organizzazioni delle precedenti, si rifiutò la tradizionale designazione di "società degli studenti" e si adottò quella di "comitati di sciopero", molto più coerente con le funzioni che dovrebbero realizzare, poiché il sentimento sempre più generalizzato tra gli studenti era quello di rispondere con lo sciopero alle aggressioni ricevute.

Gli studenti della Scuola Superiore di Economia dell'Istituto Politecnico Nazionale furono i primi a decretare lo sciopero, accordando ugualmente che la loro scuola doveva essere l'ultima in sospenderlo. Lo stesso giorno adottarono ugualmente la decisione di iniziare un arresto scolare nelle Vocacionales Cinque e Sette, così come nella Scuola Superiore di Fisica Matematica e la Scuola Superiore di Scienze Biologiche, appartenenti tutte esse al Politecnico. Nell'UNAM si dichiararono in sciopero gli studenti delle Preparatorias Uno, Due e Tre, e quelli delle Facoltà di Scienze, Filosofia, Economia e Scienze Politiche e Sociali.

A base di chiamate telefoniche, i dirigenti dei diversi comitati di sciopero organizzarono un incontro quello stesso pomeriggio per scambiare punti di vista. L'appuntamento fu alle sei nell'auditorium della Facoltà di Scienze Politiche e Sociali in Città Universitaria. Era la prima occasione in cui autentici rappresentanti della comunità studentesca politecnica ed universitaria si riunivano per analizzare congiuntamente un problema. Non si elaborò ordine del giorno, né tanto meno si pretese di adottare immediatamente risoluzioni che implicassero l'adozione di un specifico impegno; semplicemente si evidenziò la necessità di tentare l'unificazione studentesca cercando di affrontare il conflitto che iniziava. La riunione si sciolse verso le undici di sera, prendendo come singolo accordo quello di riunirsi di nuovo il prossimo lunedì pomeriggio, nella Facoltà di Filosofia e Lettere di Città Universitaria.

Lunedì 29 luglio segnò un'ulteriore e importante tappa nello sviluppo del conflitto studentesco. In tutte le strutture universitarie e politecniche avevano luogo tumultuose assemblee. Ogni ora che trascorreva si incrementava considerevolmente il numero di scuole e facoltà che si incorporavano allo sciopero. Grida, ovazioni, fischi, accesi discorsi ed anatemi al governo, risuonavano senza sosta in auditorium e aule. Comitati di sciopero, integrati da elementi di comprovata indipendenza davanti alle parole d'ordine ufficiali, continuavano a sostituire le società degli studenti sovvenzionate e controllate per la Segreteria di Governo.

Quel pomeriggio, incontrandosi i comitati di sciopero nella Città Universitaria, erano già circa un centinaio le scuole di istruzione superiore lì rappresentate. In questa occasione gli assistenti alla giunta non si accontentarono di sottolineare la necessità di agire in modo unitario davanti al problema, ma si diedero al compito di formulare un Pliego Petitorio che contenesse le richieste che dovrebbero esporre al governo. Dopo lunghe discussioni il Pliego Petitorio rimase redatto come segue:

1. Libertà a tutti gli studenti detenuti.
2. Destituzione di Luis Cueto Ramírez e di Raul Mendiolea Cerecero, capo e vicecapo rispettivamente della Polizia del Dipartimento del D.F.
3. Soppressione del Corpo di Granaderos.
4. Risarcimento alle famiglie dei morti e ai feriti che sono stati vittime dell'aggressione.
5. Investigazione, azione penale e all'occorrenza destituzione e condanna delle autorità responsabili dell'aggressione.

Allo stesso tempo che realizzavano il loro incontro, i dirigenti studenteschi ricevevano costanti chiamate telefoniche informandogli che stava accadendo un forte scontro nel centro della città. Gli avversari erano di nuovo le forze di polizia e gli alunni delle Preparatorias Uno, Due e Tre. A giudicare da quello che dicevano loro, i dirigenti arrivarono alla conclusione che i granaderos stavano portando a termine un sforzo disperato di piegare la resistenza studentesca.

La sessione dei comitati di sciopero aveva luogo nell'auditorium della Facoltà di Filosofia e i telefoni per cui ricevevano le chiamate erano ubicati negli uffici di detta Facoltà, ciò obbligava a che diversi studenti rimanessero vicino agli apparecchi ricevendo le relazioni; quando giudicavano che quello che gli era stato comunicato era in realtà importante correvano all'auditorium e a grandi voci lo facevano conoscere. Verso le undici di sera arrivò una notizia che fu ricevuta con applausi e acclamazioni:

"I preparatorianos hanno sconfitto i granaderos facendoli fuggire in pieno sbandamento. Non ci sono già poliziotti in prossimità degli edifici universitari."

Fu l'ultima buona notizia di tutta la serata, le seguenti non sarebbero per niente incoraggianti. Studenti e residenti che vivevano nei pressi del Campo Militare Numero Uno cominciarono a chiamare per riferire che era uscito da esso un forte contingente di truppe. Il convoglio era integrato da carri armati leggeri, jeep che trainavano cannoni e camion trasportando soldati. Mentre avanzava il convoglio attraverso la città fu diventando chiaro che si dirigeva al vecchio quartiere universitario. La sessione dei comitati di sciopero rimase praticamente sospesa, i suoi membri avevano già solo attenzione per tentare di indovinare quali potrebbero essere gli ordini che portavano i soldati. Le opinioni erano divise. Alcuni consideravano che le autorità non oserebbero disporre l'assalto armato in una sede dell'UNAM, perché ciò implicherebbe una flagrante violazione all'Autonomia Universitaria, la quale era stata rispettata fino ad allora per tutti i governi. Altri, invece, affermavano che se si era deciso di inviare l'esercito non era precisamente per sfilare. Abbandonando l'auditorium, la maggior parte dei dirigenti studenteschi si riunirono negli uffici attorno i telefoni.
  
Ben presto i dubbi sono stati chiariti. Le distorte voci degli informanti che chiamavano dal posto dei fatti riferirono quello che stava succedendo. L'esercito si avvicinava alle scuole preparatorie avanzando in formazione di combattimento. Gli studenti si erano rifugiati un'altra volta dietro le alte mura dell'antica Scuola di San Ildefonso. La conoscenza di quello che stava succedendo nel centro della città produsse stupore e sgomento tra i dirigenti studenteschi riuniti in Città Universitaria. Con preoccupato tono impartirono attraverso le linee telefoniche i consigli che stimavano rilevanti:

"Uscite immediatamente prima che l'esercito blocchi tutte le uscite. Non rimanete né un istante in più dentro l'edificio. Cercate di uscire per Justo Sierra e non per San Ildefonso. Per favore, compagni, non cercate di opporre resistenza alle truppe."

Dopo l'angosciante e precipitosa valanga di consigli ci fu un intervallo di teso silenzio. Per qualche minuto i telefoni rimasero muti, così come i dirigenti tutti stretti accanto ad essi. All'improvviso squillò un campanello. Alzò l'auricolare Gilberto Guevara Niebla, dirigente del comitato di sciopero della Facoltà di Scienze dell'UNAM. All'altro capo del filo si ascoltò una ben timbrata voce giovanile.

-Pronto, qui San Ildefonso, i soldati hanno occupato tutta la strada, sono moltissimi e portano un arsenale come per andare in Viet Nam.

-Vi avevamo detto di uscire dall'edificio prima che arrivassero. Perché non l'hanno fatto?

-Quasi tutti se ne sono andati, poterono uscire per Justo Sierra; rimaniamo solo circa un centinaio.

-E perché siete rimasti?

Si verificò un lungo silenzio, apparentemente il preparatoriano non riusciva a trovare la risposta adeguata alla domanda che gli era stata formulata.

-Non lo so -rispose finalmente, aggiungendo subito-. Devo andare via, i soldati ci hanno dato dieci minuti affinché ci rendiamo ed usciamo con le mani in alto; non lo faremo, non lasceremo da sola la prepa, cercheremo di fermarli quando entreranno.

Gilberto Guevara Niebla avrebbe voluto poter comunicarsi attraverso il telefono con tutti gli studenti che si trovavano in San Ildefonso, dir loro che non fossero così folli, che era assurdo far fronte a mani vuote carri armati e cannoni. L'enorme nodo che si era formato nella sua gola gli impedì di far uscire nessuna parola.

Il preparatoriano pronunciò un'unica frase e dopo riagganciò:

-Mi chiamo German Reyes.
Il lic. Luis Echeverría Álvarez aveva aspettato pieno di interesse il resoconto della polizia relativo agli eventi del venerdì 26 luglio. Quando circa le undici di sera Mendiolea Cerecero e il direttore della Federale di Sicurezza gli resero personalmente le loro rispettive relazioni, il segretario di Governo non riuscì a capire quello che in realtà era successo; minimizzando il fatto di avere coinvolto nel conflitto tre preparatorias, definì riuscita l'operazione e con toni trionfali diede per radio al presidente della Repubblica la sua molto personale versione degli eventi: il raduno in cui partecipassero simpatizzanti della Rivoluzione Cubana e studenti delle vocacionales in disubbidienza era stato sciolto e i suoi partecipanti fortemente frustati. Molti dei ribelli -proseguì informando- avevano ipotizzato con ingenua audacia che potevano arrivare fino allo Zocalo ad insultare al governo. Erano già morti, i loro corpi sarebbero cremati e sparse le sue cenere. Le autorità e i mezzi di comunicazione -concluse- negherebbero categoricamente che avesse perso la vita persona alcuna negli eventi di quella giornata.

La voce del lic. Diaz Ordaz attenuò lievemente la sua solita asprezza esprimendo un magro complimento al segretario di Governo: ciò fu più che sufficiente affinché questo si sentisse traboccare di gioia. Con frasi precipitose per il febbrile entusiasmo che gli dominava, il lic. Echeverria manifestò al primo mandatario le idee che aveva maturato nel corso degli ultimi giorni: accusare il Partito Comunista di essere il promotore dei recenti disturbi, invadere i suoi uffici e imprigionare quanto membro di detto partito si riuscisse acchiappare.

L'apparecchio che trasmetteva la voce del lic. Diaz Ordaz rimase in silenzio qualche istante, dopo si ascoltò un'ordine tagliente che mise fine alla comunicazione:

-Avanti con il suo progetto, signor segretario.

-Hanno sentito cos'ha detto il signor presidente -esclamò allegro il lic. Echeverria rivolgendosi a Mendiolea e il direttore della Federale di Sicurezza, muti testimoni della radiofonica intervista -Suvvia! -esortò con forte tono-. Eseguano immediatamente i suoi ordini.

I due funzionari di polizia si allontanarono frettolosi dalla Segreteria di Governo; lasciavano in essa al suo titolare assaggiando il sapore di una vittoria che esisteva in realtà soltanto nella sua immaginazione. Gli eventi del giorno dopo dovrebbero di far crollare -sebbene molto lentamente- l'euforia del lic. Echeverria.

Conoscitori del fatto che il segretario di Governo lavorava nei suoi uffici persino nei giorni di riposo, diversi dirigenti delle società degli studenti del Politecnico e dell'UNAM arrivarono fino all'ombroso palazzo di Bucareli sabato pomeriggio. Tutti loro portavano la stessa lamentela: giusto quando erano più necessari i loro servizi le bande di porros erano sparite, e come logica conseguenza, nella mattinata di quel giorno si erano svolte assemblee in varie scuole senza che i dirigenti studenteschi avessero potuto convogliarle, arrivando perfino a decretarsi lo stato di sciopero in numerose strutture.

Il lic. Echeverria cercò di tranquillizzare e infondere fiducia ai ripudiati rappresentanti della comunità studentesca, promettendogli che il prossimo lunedì, riaprendosi le scuole dopo il riposo di fine settimana, le bande di porros sarebbero nuovamente accanto a loro, offrendogli il supporto che dovesse essere necessario affinché potessero riconquistare la loro autorità sugli studenti.

Non appena andarono via gli abbattuti dirigenti studenteschi, il segretario di Governo cercò di adottare misure favorevoli a portare a termine la sua promessa. Inutilmente tentò di localizzare i dirigenti delle bande di porros, così sembrava che la terra si fosse inghiottito tutti i capi delle bande al servizio dello Stato. Gli agenti inviati nella loro ricerca trovarono solo domicili vuoti, i vicini li informavano che i suoi occupanti erano usciti affrettatamente, senza spiegare a nessuno i motivi della sua precipitosa partenza.

Non fu bensì fino al pomeriggio del giorno dopo -domenica 28 luglio- quando due agenti della Direzione Generale di Sicurezza riuscirono a localizzare il Chueco. Il capo de los Araña si trovava nascosto nella casa di uno dei suoi fratelli ubicata nel quartiere Guerrero. Fisica e moralmente era molto colpito. Aveva un braccio rotto, diverse costole fratturate, il viso con dei lividi e contusioni su tutto il corpo. Vedendo gli agenti cominciò a singhiozzare ed a supplicare di non ucciderlo.

Senza considerazioni né spiegazioni di alcun genere, gli agenti costringerono il teppista di accompagnarli, portandolo direttamente fino al privato del lic. Echeverria. Il segretario di Governo si sorprese nel vedere lo stato in cui si trovava il capo de los Araña, ma il suo stupore fu ancora più grande sapendo che erano stati i granaderos e non gli studenti che gli avevano lasciato in così triste condizione.

Una volta convinto che la sua vita non era minacciata, il capo de los Araña si lasciò andare. Con dolorante tono narrò gli eventi successi nella Alameda Central, specialmente il devastante attacco sofferto per le bande di porros per mano dei granaderos. Esagerando le cose, affermò che varie dozzine dei suoi compagni avevano morto nello scontro. Con i suoi propri occhi aveva visto cadere il cadavere dal suo amico il Chupetas, il cui corpo, deformato dai colpi, giaceva sdraiato nell'angolo di Lopez ed Avenida Juarez. Chi non erano morti -finì- si trovavano dispersi e nascosti, fermamente convinti che erano stati vittime di una manovra escogitata dal governo al fine disbarazzarsi di loro.

Il lic. Echeverria si sforzò per convincere il Chueco che si trovava in un errore e che quello successo era stato risultato di una sfortunata confusione della polizia. Ugualmente cercò di persuaderlo che tentasse di rompere per la forza lo sciopero decretato nella Vocacional Cinque. Tutto fu inutile: il Chueco era determinato a rimanere il più lontano possibile da studenti ed autorità per il tempo che gli restasse di vita. Il trauma che gli lasciassero gli eventi era di tale grado che perfino aveva preso la determinazione di cercare un lavoro onorevole a cui dedicarsi.

Confuso e no sapendo da che parte andare davanti al giro che stavano prendendo gli eventi, il segretario di Governo passò tutta la notte a rimuginare. Nonostante la sua preoccupazione, manteneva viva la speranza che il riposo domenicale avesse raffreddato gli animi studenteschi e che la normalità ritornerebbe da sola alle aule il giorno dopo. Continuando ad avanzare la mattina del lunedì, detta illusione svanì come la nebbia in una giornata di sole. Abbattuti e lamentosi, i dirigenti delle società degli studenti non smettevano di chiamare per render conto dell'incremento delle scuole in sciopero e manifestare il loro risentimento per il fatto di non essere stati appoggiati, in momenti così cruciali, per le bande di porros.

L'interminabile notte insonne non aveva trascorso invano. Nella mente del lic. Echeverria cominciava a delinearsi il sospetto che l'aggressione agli porros non fosse dovuta ad una confusione della polizia, bensì ad un deliberato proposito di sabotare l'operazione che con tanto impegno proiettasse. Spinto dalle circostanze, il segretario di Governo elaborò mentalmente un nuovo progetto di risoluzione del conflitto la cui osservanza potrebbe tentarsi quella stessa notte. Conclusa l'elaborazione del nuovo piano convocò diversi funzionari ad un incontro nel suo ufficio.

La riunione promossa dal segretario di Governo cominciò alle quattro del pomeriggio ed a essa assisterono, oltre a lui, i seguenti funzionari: il generale e lic. Alfonso Corona del Rosal, capo del Dipartimento del D.F.; il lic. Julio Sanchez Vargas, procuratore generale della Repubblica; il lic. Gilberto Suarez Torres, procuratore di Giustizia del Distretto e Territori federali, Luis Cueto Ramirez e Raul Mendiolea Cerecero, capo e vicecapo della Polizia Preventiva del D.F.

Rivelando in ognuno dei suoi gesti e parole la crescente preoccupazione che lo dominava, il lic. Echeverria definì estremamente grave la situazione a cui si affrontavano. Lo sciopero che si diffondeva nelle scuole minacciava di mandare all'aria tutto il sistema di controllo della comunità studentesca che il governo sosteneva ad un così alto costo. Quello che stava propiziando la diffusione de lo sciopero -affermò convinto il segretario di Governo- era l'impotenza manifestata delle autorità per punire ai preparatorianos. Risultava necessario pertanto applicare a questi un monito che servisse da esempio a tutti gli studenti. Alla luce del fallimento dei granaderos stimava conveniente la sua sostituzione per agenti giudiziali e della Federale di Sicurezza, i quali, sparando le loro pistole, prenderebbero per assalto quella notte le preparatorie e il giorno dopo occuperebbero qualsiasi scuola i cui alunni si rifiutassero di riprendere le classi.

Assumendo un atteggiamento di evidente disprezzo per il suo collega di gabinetto, il generale e lic. Alfonso Corona del Rosal si dichiarò contrario alla soluzione proposta dal lic. Echeverria. A suo parere risulterebbe loro impossibile, agli agenti, impadronirsi della scuola Nazionale Preparatoria, perché non appena iniziassero l'attacco, gli studenti chiuderebbero le sue porte e queste non potrebbero essere mai violate con semplici spari di pistola. Invece, le pallottole degli agenti potrebbero causare perdite tra gli studenti che si trovassero in finestre e terrazze, con l'inconveniente che i corpi dei giovani morti non rimarrebbero a disposizione delle autorità per la sua immediata scomparsa, ma sarebbero utilizzati dagli universitari per accusare il governo di brutale e repressivo.

L'opposizione al suo progetto causò un incontrollabile attacco di rabbia nel lic. Echeverria. Con il viso arrossito e lo sguardo fiammeggiante, accusò apertamente il reggente della città di stare boicottando la soluzione del problema per fargli fare brutta figura davanti al presidente della Repubblica. Ricevé solamente per risposta un burlone sorriso del suo rivale nella successione presidenziale. Il lic. Sanchez Vargas cercò di ristabilire la calma e con tranquillo tono espresse la sua opinione nel senso che prima di prendere qualsiasi determinazione doveva informarsi al signore presidente di quello che stava succedendo.

Non fu necessario che gli alti funzionari riuniti nella giunta cercassero di comunicarsi con il lic. Diaz Ordaz; come se questo avesse intuito i suoi desideri e si anticipasse ad essi, si ascoltò all'improvviso nell'ufficio il segnale radio che indicava che il primo mandatario chiamava il segretario di Governo. La voce che istanti dopo inondava la stanza risuonò più arrogante e collerica di quanto già di per sé gli era abituale. Cosa diamine stava succedendo nella capitale? Come era possibile che non si avesse potuto mettere in riga ad alcuni mocciosi? A tale grado arrivava l'inettitudine dei suoi collaboratori?

Balbettando intervallate frasi in tono quasi singhiozzante, il lic. Echeverria tentò di giustificarsi affermando che l'unico colpevole di quello che accadeva era il capo del Dipartimento del D.F. che di sicuro aveva impartito istruzioni alla polizia affinché questa aggredisse gli porros durante il decorso della passata manifestazione.

Informato già di chi partecipavano alla giunta, il presidente volle parlare con il generale e lic. Corona del Rosal. Il reggente della città ribatté con ben simulata indignazione le imputazioni che gli erano fatte. Con sdegnoso tono affermò che il segretario di Governo aveva commesso gravi errori sia pianificando come dirigendo l'operazione, esempio di ciò era che neanche aveva pensato di fornire gli porros con alcun segno distintivo che permettesse alla polizia di distinguerli dal resto dei manifestanti.

Il lic. Diaz Ordaz ascoltò la versione del reggente senza interromperlo. La sua rabbia era così grande che nemmeno riuscì a trovare le imprecazioni adeguate per qualificare l'incompetenza dei suoi alti collaboratori; invece di ciò scelse di umiliarli impartendo direttamente le sue istruzioni al funzionario di minore categoria di quegli riuniti lì.

Con concentrata attenzione il vicecapo della Polizia ascoltò via radio le disposizioni presidenziali. Tenendo conto queste, le forze di polizia dovevano portare a termine un ultimo tentativo per vincere i preparatorianos. L'assalto alle scuole doveva effettuarsi utilizzando i granaderos e tutti i membri della Polizia Preventiva della città, ma senza sparare armi da fuoco.

Prima di dare per conclusa la giunta, il segretario di Governo menzionò la convenienza di tornarsi a riunire quella stessa notte. Il reggente acconsentì, a patto che la giunta si effettuasse nel suo ufficio. I procuratori appoggiarono la proposta del reggente per cui, sebbene molto controvoglia, il lic. Echeverria si vide costretto a dover accettare il cambio di sede per la riunione.

Mentre i funzionari ritornavano ai suoi rispettivi uffici, il presidente della Repubblica non rimaneva inattivo nel Palazzo di Governo della città di Guadalajara; prevedendo che l'attacco della polizia alle preparatorie risultasse infruttuoso, si comunicò via radio con il segretario della Difesa, generale Marcelino García Barragan. Con frasi ferme e decise manifestò al militare che era molto possibile che quella stessa sera si richiedessero i servizi dell'esercito. Uomini e squadra dovevano essere pronti per entrare in azione. Il generale rispose che manterrebbe in stato di allerta diversi contingenti, i quali si metterebbero in moto nello stesso istante in cui il primo mandatario così l'ordinasse.

Alle undici cinque di sera, utilizzando un telefono pubblico situato nei portoni della Plaza de Santo Domingo, il capo della Polizia chiamò il reggente della città per esprimergli, con alterato tono, che l'operazione intentata contro gli studenti aveva concluso in un completo disastro. Non solo le scuole seguivano in potere dei giovani, ma questi, in un inaspettato contrattacco, erano riusciti a far sgomberare i poliziotti ferendo ad un buon numero, includendo il vicecapo della corporazione. Non esisteva in quei momenti barriera poliziesca alcuna tra le preparatorie e lo Zocalo.

Negli uffici del reggente si trovavano già riuniti il segretario di Governo e i procuratori. Avendo conoscenza del fallimento subito dalla polizia decisero di comunicarlo immediatamente al presidente della Repubblica. Compito affidato al generale e lic. Corona del Rosal. Il primo mandatario si limitò a rispondere con un grugnito ascoltando la notizia, dopo espresse che i quattro funzionari dovevano rimanere riuniti aspettando istruzioni; detto questo interruppe la comunicazione.

Senza perdere un secondo il lic. Diaz Ordaz chiamò il segretario della Difesa e gli diede l'ordine di procedere all'assalto delle preparatorias. Nel Campo Militare Numero Uno erano pronti a entrare in azione tre battaglioni della Brigata di Fanteria, due battaglioni della Guarnizione della Piazza, un battaglione di Trasmissioni ed un squadrone di Riconoscimento, tutti loro con la sua attrezzatura completa di combattimento che nel caso dei Paracadutisti includeva il corrispondente paracadute e nel caso delle Guardie Presidenziali un centinaio di carri armati leggeri di assalto. Tre generali comandavano la colonna che molto presto si mise in moto: Jose Hernandez Toledo, Crisoforo Mazon Pineda e Mario Ballesteros Prieto. Attraversando la città, il convoglio militare arrivò fino ai pressi delle preparatorie. Risultava evidente che gli studenti erano a conoscenza dell'imminente arrivo dell'esercito e apparentemente avevano scelto di ritirarsi. Le strade erano deserte, resti ancora fumanti di veicoli calcinati si osservavano ovunque, così come ogni tipo di oggetti che essendo stato utilizzati come proiettili giacevano ora dispersi per terra. Gruppi sempre più numerosi di poliziotti, fermando la loro fuga, ritornavano finiti e malconci. Dopo identificarsi come capo della Polizia Capitalina, Luis Cueto Ramirez dialogò con i generali che dirigevano l'operazione. Menzionò loro che a scapito di molte spiacevoli sorprese, i poliziotti avevano scoperto che l'edificio che ospitava le Preparatorias Uno e Tre -ubicato nelle strade di San Ildefonso- si comunicava internamente con l'edificio delle strade di Justo Sierra. Di sicuro era per questo ultimo -concluse- per dove gli studenti stavano fuggendo in quei momenti.

Il generale Jose Hernandez Toledo, comandante in capo dell'Operazione, ordinò portare a termine una manovra avvolgente che coprisse non solo le strade dove si trovavano i due edifici menzionati, ma anche quelle dove era situata la Preparatoria Due, la quale era stata sloggiata dagli studenti e fu rapidamente occupata dalle truppe.

Conclusa la manovra avvolgente l'esercito iniziò la sua avanzata. Utilizzando le proprie gru, così come quelle della Polizia di Transito, i soldati furono ritirando le barricate costruite tramite veicoli distrutti e anneriti per il fuoco. Sgomberata la strada arrivò il turno ai carri armati. Con i motori facendo le fusa, le pesanti moli di acciaio iniziarono il loro spostamento. Li seguivano jeep equipaggiati con bazooka e cannoni di 101 millimetri. Finalmente chiudevano la marcia i soldati di fanteria portando mitragliatrici con baionette pronte.

L'impressionante dispositivo militare si fu schierando di fronte all'antica Scuola di San Ildefonso. Carri armati e cannoni, mitragliatrici e bazooka miravano con le sue nere bocche il coloniale edificio. Nelle terrazze e finestre dell'assediata costruzione si muovevano improvvisamente rapide ombre la cui presenza smentiva l'iniziale supposizione che tutti gli studenti avevano scelto di uscire fuggendo davanti all'arrivo dall'esercito. Lo strano silenzio che regnava nell'ambiente fu rotto per la grezza voce del generale Jose Hernández Toledo chi, megafono in mano, esclamò:

-Ragazzi, è finito il gioco. Avete dieci minuti per aprire le porte e uscire con le mani in alto. Uscite al più presto. Comincia il conteggio.

Il trascorrere del tempo si trasformò in qualcosa di ominoso che comportava funesti presagi. Lentamente i minuti scivolavano uno ad uno verso il passato. Arrivando a cinque il generale Hernandez tornò ad avvalersi del megafono:

-Hanno già trascorso cinque minuti. Non siamo qui per giocare con voi. Uscite immediatamente o vi pentirete.

Le porte continuavano chiuse e l'improrogabile scadenza stava volgendo al termine. I generali dialogarono brevemente rispetto a quale, di tra le diverse arme a loro disposizione, sarebbe la più conveniente per effettuare la violazione dell'edificio. Si decisero per il bazooka.

Il generale Crisoforo Mazon Pineda fu l'incaricato di impartire gli ordini ed un soldato di viso grassottello appartenente al battaglione di Paracadutisti l'incaricato di attuarli. Stringendo nelle sue mani il mortale artefatto, il soldato avanzò alcuni passi e puntò la sua arma in direzione ad una vicina e ben ornata porta. I suoi occhi lanciavano malevoli fulgori che denotavano il piacere che li produceva l'azione che stava per realizzare. A causa del paracadute che portava nella schiena, la sua figura somigliava quella di un essere anormalmente deforme e maligno. Dietro la porta cominciarono ad ascoltarsi voci che a quanto pare cantavano.

Il generale diede un ordine e il soldato oppresse il grilletto dell'arma.
-Come è possibile che siamo arrivati a questo? -inquisì confuso il signore German Reyes rivolgendosi a sua moglie-. Francamente non credo che possiamo essere accusati di aver fallito come genitori, ha avuto sempre il nostro amore e comprensione. A volte penso che sia pazzo.

-Perché non gli parli? -domandò a sua volta la moglie-. Fagli vedere che è nostro unico figlio e che saremmo morti se gli succede qualcosa. Digli che non vada alla prepa finché duri questo trambusto. Offrigli denaro affinché vada ad Acapulco alcuni giorni, quando ritorni di sicuro sarà finita la confusione.

-Non abbiamo denaro per questo.

-Se vuoi io vado adesso a impegnare i miei gioielli; preferisco rimanere senza gioielli che senza mio figlio.

-Va bene, glielo dirò. Spero di non fare tardi all'ufficio, questo mese ho già due ritardi e con un altro in più mi scontano una giornata e mi mettono un brutto voto nell'espediente.

Il signor Reyes entrò nella stanza di suo figlio. Un mare di ricordi sono venuti alla sua memoria. In quel stesso luogo aveva trascorso innumerevoli ore giocando con German quando questo era piccolo e leggendo insieme a lui romanzi di avventure quando il bambino si trasformò in un adolescente. Tutto ciò gli risultava contemporaneamente vicino e lontano nel tempo. Perché avevano cominciato a rompersi gli stretti legami che lo vincolavano a suo figlio? I colpevoli -concluse il genitore fra sé e sé- erano i partiti e i movimenti politici di sinistra ai cui eventi andava German da quando entrasse, mesi fa, nella preparatoria.

I signor Reyes osservò con preoccupato sguardo la figura di suo figlio, il quale era a letto e dormiva. Il suo sonno era agitato e difettosa la sua respirazione, conseguenza logica delle numerose contusioni apprezzabili sul suo viso. Aveva il naso fortemente infiammato ed un enorme livido in un occhio. Il padre sapeva che tutto il corpo di suo figlio era pieno delle orme lasciate dai randelli dei granaderos.

-German sveglia, devo andare al lavoro ma prima voglio parlare un attimo con te.

Il giovane poté aprire bene solo uno dei suoi occhi, l'altro rimase socchiuso a causa del grosso ematoma.

-Che cosa intendi fare oggi? -domandò il padre con voce che cercava di dissimulare la sua angoscia.

-È lunedì, devo  andare a scuola.

-Sai molto bene che non ci saranno lezioni. Non siete in sciopero?

L'occhio aperto del ragazzo era una finestra che lasciava vedere cosa stava succedendo nel suo interno: una crescente sfiducia lo ritraeva sempre più su sé stesso. Con cauto accento rispose:

-Sì, siamo in sciopero, ma faccio parte di un comitato di vigilanza e devo andare.

-Questo significa che ti importano più i tuoi obblighi con quel comitato che la preoccupazione di tua madre? Che non ti sei visto nello specchio? Per un vero miracolo non ti hanno lasciato invalido, ma la prossima volta ti ammazzano. Hai idea il che sarebbe questo per noi? Tu non conosci il governo, deve essere furioso che dei adolescenti abbiano messo in ridicolo la polizia. Non credere che vada a lasciare così le cose, in qualsiasi momento reagirà ed è capace della peggiore atrocità. Guarda, ti propongo una cosa. Ti ricordi quanto ci siamo divertiti nella pensione di Acapulco in cui stavamo l'anno scorso? Tua madre ti darà denaro affinché tu te ne vada oggi stesso. Con l'acqua di mare, persino i bozzi e i lividi ti saranno rimossi.

Nuovamente l'occhio del giovane rispecchiò chiaramente i sentimenti che lo attraversavano: amore a suo padre, e dignità offesa per la proposta che questo gli formulasse. La barriera che, con il tempo, li aveva separato, costituita per l'incapacità di entrambi di riuscire a capire il punto di vista dell'altro, si sollevava ora più insormontabile che mai. Senza dire una parola German si limitò a scuotere ripetutamente la testa con negativo segno. Il signore Reyes rimase ugualmente in silenzio, preda di una lotta interna in cui una parte del suo essere sosteneva di ammonire suo figlio ed ordinargli di non uscire dal dipartimento, mentre l'altra era incline a supplicargli identica proposta. Finalmente non fece né una cosa né l'altra, inclinandosi baciò German nella fronte e dopo uscì affrettato dalla stanza e del domicilio.

Avvicinandosi alla sua scuola German osservò che studenti e granaderos continuavano occupando le stesse posizioni del giorno prima. Gli studenti non avevano cessato di rinforzare le barricate erette intorno alle preparatorias. Sommavano più di un centinaio di veicoli utilizzati per questo fine. Si trattava di autobus di trasporto urbano i cui pneumatici erano stati sgonfiati. All'interno dei veicoli abbondante stoppa e numerose bottiglie di benzina garantivano la possibilità della sua pronta trasformazione in muraglie di fuoco. A sua volta, la polizia aveva incrementato considerevolmente i contingenti posizionati a modo di blu barriera tra la preparatoria e il Zocalo.

Un grande chiasso regnava all'interno dell'antica Scuola di San Ildefonso. Nei suoi cortili e arcate risuonavano molte migliaia di giovanili ed eccitate voci. Allegando la sua condizione di dirigente di un comitato di vigilanza, German riuscì a farsi largo fino alle prossimità di "El Generalito", sala assembleare detentrice di mobili di pregiati legni artisticamente intagliati nella quale si stava realizzando un'assemblea. Il locale era stracolmo e a German gli risultò impossibile oltrepassare la sua porta; riuscì tuttavia a sapere che, non appena concludesse la riunione, i dirigenti dei comitati di sciopero delle tre preparatorias uscirebbero a proporre in pubblica assemblea l'adozione di certe misure.

Distribuiti in cortili e corridori e circondati di veri gorghi umani, i dirigenti dei comitati di sciopero rivelarono a grandi voci due idee fondamentali. La prima consisteva in tentare di evitare qualsiasi atto di provocazione contro le forze di polizia: finché i poliziotti non attaccassero gli studenti, questi dovevano astenersi non solo di lanciargli cose addosso ma perfino di insultarli. La seconda proposta esponeva le linee guida del piano difensivo che potrebbe adottarsi nell'ipotesi che la polizia cercasse di nuovo di impadronirsi delle scuole. Era conveniente - spiegarono i dirigenti - che un buon numero di preparatorianos uscisse dagli edifici e si mantenesse all'aspettativa nelle strade vicine; in questo modo, se i poliziotti portavano a termine un assalto alle strutture, potrebbero attaccarli per la retroguardia ed obbligarli a dividere le loro forze.

In mezzo ad un grande disordine le proposte furono ampiamente dibattute, specialmente la relativa ad evitare attacchi ed insulti alla polizia fu oggetto di accese polemiche. Finalmente fu approvata, ma con l'eccezione che i fischi non dovevano considerarsi strettamente come insulti, e pertanto, potrebbero continuarsi lanciando sonori fischi alle forze di polizia imboscate nelle vicinanze.

Il comitato di vigilanza che German conduceva fu inviato al tetto dell'edificio, da lì doveva osservare quello che succedeva in strada e rendere conto di qualsiasi movimento sospettoso che avesse luogo nelle vicinanze della scuola. Si trattava di un compito che ben presto divenne divertente. Diversi studenti arrivarono con chitarre e si improvvisò una competizione tra un gruppo che intonava composizioni rancheras ed un altro che cantava romantici bolero. German non aveva brutta voce e con entusiasmo cantò con voce alquanto forte cercando di raggiungere gli alti toni di alcune campagnole canzonette. Dopo quasi tre ore di incessante cantare, la competizione fu dichiarata pareggiata per la giuria, costituita da mezza dozzina di belle ragazzine. Grande ovazione della numerosa folla premiò gli sforzi di entrambi i gruppi.

Le forze di polizia non davano segno alcuno di stare preparandosi per entrare in azione. numerosi vicini e genitori di famiglia arrivavano alle preparatorie portando ogni tipo di viveri. Dopo mezzogiorno, i dirigenti dei comitati di sciopero decisero di dirigersi a Città Universitaria, dove avrebbe luogo una riunione di tutti i comitati delle scuole in sciopero. Intorno alle sei del pomeriggio German sentì dire che un'infermiera, con il sostegno di alcune madri e sorelle degli studenti, avevano organizzato nella scuola un centro di assistenza di pronto soccorso. Il giovane chiese se l'infermiera era carina, e ricevendo una risposta affermativa, decise che le sue contusioni meritavano un'urgente attenzione.

L'infermiera non era tanto carina come attraente. Profondi occhi neri che esprimevano una serena forza. Sorriso allegro e contagioso. Gesti soavi e delicati. Si chiamava Leticia e si era guadagnata l'immediata simpatia di tutti gli studenti. Con la massima cura applicò un po' di arnica nel viso di German e gli diede alcune pastiglie che, come disse, avrebbero accelerato il processo infiammatorio.

German vagò per un po' per i corridori conversando con alcuni compagni e dopo ritornò al tetto dell'edificio. Era già sera e continuava a prevalere la più completa calma. Nel umore del giovane Reyes emerse la noia, questa lo spinse a domandarsi se non sarebbe opportuno andare a dormire a casa sua e ritornare il giorno dopo. Improvvisamente osservò che, della lunga fila di autobus parcheggiati a poco più di un isolato della scuola, cominciava a scendere un crescente numero di granaderos i quali si raggruppavano rapidamente in compatte file; senza aspettare più diede la voce di allerta:

-Aguas, spargiate la voce, credo che si sta già svegliando "la chota!"

La preparatoria reagì subito con la rapidità di riflessi caratteristica di un vigoroso organismo. In tutto l'edificio risuonavano grida di allerta e precipitosi passi. I molteplici volti degli studenti conformavano ora un solo viso e questo era una vera e propria immagine della fermezza e la determinazione. Quelli che sorvegliavano dalla strada erano già accanto alle barricate, pronti per procedere ad incendiarle non appena si avvicinassero i granaderos. Nei tetti innumerevoli mani stringevano con forza ogni tipo di proiettili da lanciare.

Non appena finirono di raggrupparsi e senza effettuare una previa saturazione di gas lacrimogeni, le forze di polizia si lanciarono all'attacco. Vedendole arrivare gli studenti che custodivano le barricate le diedero fuoco. enormi fiammate si sollevarono avvolgendo i veicoli con cui si era integrato il singolare muro difensivo. L'avanzata della polizia si fermò, ma non per molto tempo; in questa occasione gli esseri di blu venivano evidentemente preparati per questa contingenza. Un centinaio di granaderos combatterono il fuoco, armati di estintori di mano. Le sostanze chimiche che lanciavano producevano dense nuvole di schiuma che soffocavano le fiamme. Vinto il fuoco fecero la sua apparizione sei gru che ritirarono alcuni dei calcinati autobus. Una volta aperto il passo gli attaccanti riannodarono la loro avanzata e si avvicinarono alle porte di San Ildefonso. Varie dozzine di essi portavano enormi asce che evidenziavano il mezzo che userebbero per entrare all'edificio.

La reazione studentesca non si fece aspettare. Un vero diluvio di proiettili cadde sui poliziotti causando loro gravi perdite. Tetti e finestre erano una specie di inesauribili sorgenti di cui sgorgavano cascate di oggetti. Cercando di proteggersi nel miglior modo possibile con i suoi enormi scudi e indifferenti apparentemente alle perdite che soffrivano, i granatieri proseguivano la loro avanzata in modo lenta ma incontenibile, le loro affilate asce erano già solo a pochi metri dal loro obiettivo. All'improvviso, tutto il vecchio quartiere universitario cominciò a tremare a seguito di un strepito paragonabile a quello di un ciclone in movimento. Una varia collezione di suoni conformavano il fragoroso strepito: veloci passi, esaltate grida ed assordanti "Goyas." Confluendo da diverse strade, varie migliaia di preparatorianos attaccavano simultaneamente le forze che assediavano le loro scuole.

La valanga studentesca oltrepassò molto presto le loro iniziali intenzioni. Prima di lanciarsi all'attacco i giovani avevano convenuto in che questo si limiterebbe a frustrare l'assalto alle scuole, cioè, non appena i poliziotti si voltassero per far fronte la minaccia sorta alle loro spalle, gli studenti si ripiegherebbero, per ritornare unicamente nel caso in cui si producesse un nuovo tentativo di impadronirsi degli edifici. Non succedé così, gli eventi si svilupparono in modo diverso a com'era previsto.

Spinti da un straripante entusiasmo, i preparatorianos non si limitarono ad arrivare davanti ai poliziotti,  lanciarli una pioggia di proiettili e  ritirarsi quando questi contrattaccassero. Prima che i granaderos cercassero di portare a termine una controffensiva, gli studenti si scagliarono con inusitata furia. Si generalizzò immediatamente un implacabile scontro. Armamento ed organizzazione erano da una parte, superiorità in numero e determinazione dall'altra. L'incontro si prolungò per molto tempo senza manifestare vantaggio da nessuno dei contendenti. I randelli dei granaderos causavano devastazioni nelle file universitarie, ma queste si vedevano sempre rinforzate con nuovi elementi. Quasi non c'erano preparatorianos dentro le loro scuole, praticamente tutti erano usciti di questa per incorporarsi alla lotta. Non esisteva un fronte definito di combattimento. I diversi gruppi in lotta si incrementavano, diminuivano o disgregavano, servendo alle mutevoli circostanze. Il tempo trascorreva e la lotta continuava con sostenuta intensità.

Finalmente il giovanile furore cominciò ad imporsi. Assediati spietatamente per un nemico apparentemente interminabile, i poliziotti cominciarono a dare segni di una crescente stanchezza. Gruppi sempre più numerosi di uniformati fuggivano. Iniziato ciò si trasformò ben presto in generale fuga. Coloro che ancora potevano correre così lo fecero. Un elevato numero di blu erano feriti e risultò loro impossibile allontanarsi. Secondo le loro proprie dichiarazioni -che formularono ore più tardi davanti alla stampa, ma che questa non pubblicò- i feriti riceverono degli studenti un trattamento esemplarmente generoso. Senza pensare in qualche momento di cercare di utilizzarli come possibili ostaggi, gli universitari portarono tutti i poliziotti feriti alle ambulanze della Croce Rossa e Verde che rimanevano stazionate nelle prossimità. Uno dei feriti era nientemeno che il proprio vicecapo della Polizia capitalina, Raul Mendiolea Cerecero.

Non ebbero la stessa sorte che i feriti i mezzi di trasporto che gli uniformati lasciarono abbandonati nella loro precipitosa fuga. Con l'eccezione di alcuni camion dei granaderos che furono utilizzati per coprire i vuoti fatti sulle barricate, gli altri veicoli furono prontamente convertiti in enormi falò i cui fiammate si alzavano all'altezza di un edificio di tre piani. I bagliori delle fiamme illuminavano una giovanile moltitudine posseduta di indescrivibile euforia. La clamorosa vittoria raggiunta sulle forze attaccanti era celebrata nei più diversi modi. Tornando ai loro vicini tempi dell'infanzia, molti studenti ballavano e cantavano tenendosi per mano, formando enormi ruote umane attorno agli incendiati trasporti della polizia.

La trionfale celebrazione stava ancora nel suo apice, quando i telefoni delle scuole cominciarono a squillare con insistenza. Vicini dei quartieri vicini al Campo Militare Numero Uno chiamavano con allarmate voci. Le relazioni erano coincidenti: un forte convoglio militare che includeva carri armati e cannoni stavano attraversando la città, tutte le segnali indicavano che si stava dirigendo verso le preparatorias.

Gli studenti sospesero la festa. Un sentimento di incertezza riguardo alla condotta a seguire si rifletteva in innumerevoli occhi. L'impossibilità di far fronte con pugni e pietre a carri armati e mitragliatrici era presente nella mente di tutti. Le strade restavano deserte, così come l'edificio della Preparatoria Due e quello che albergasse anticamente la scuola di Giurisprudenza. Sembrava che solo l'antica Scuola di San Ildefonso -sede della Scuola Nazionale Preparatoria- inspirava gli studenti fiducia come per ripararsi dietro le sue alte mura.

German Reyes fu uno degli ultimi in abbandonare la strada e di ritornare nella sua scuola. Insieme ad altri compagni spinse le pesanti foglie della centenaria porta e comprovò che rimanesse ermeticamente chiusa. Mentre portava a termine questo compito, riuscì ad ascoltare che una ragazza che forse aveva sedici anni ma che sembrava di tredici, affermava convinta:

-L'autonomia dell'Università ci protegge.

Un incessante chiasso risuonava in cortili ed arcate della storica costruzione. Ondate di angoscia e confusione agitavano la giovanile moltitudine, senza che questa trovasse alcuna forma di azione che gli permettesse di superarle. Le consegne trasmesse telefonicamente da Città Universitaria per i comitati di sciopero proporzionarono, finalmente, un'opzione a realizzare. Agitate voci informarono a grandi voci il messaggio:

-Quelli dei comitati di sciopero dicono che bisogna sloggiare immediatamente l'edificio!

Primo molto lentamente ma poi con grande urgenza, la consegna fu essendo rispettata. Quale piccoli affluenti che al unirsi formano un abbondante fiume, i preparatorianos dispersi nei vasti spazi della loro scuola furono confluendo attraverso scale e corridori. Essendo a conoscenza che l'esercito stava per arrivare davanti alle porte di San Ildefonso, gli studenti non aprirono queste, ma optarono per utilizzare come uscita il vicino palazzo della via di Justo Sierra.

German Reyes era ritornato al suo posto di osservatore nel tetto quando fu informato dell'accordo di abbandonare la preparatoria. La ragazza che aveva sedici anni e sembrava di tredici salì ansimante all'ultimo tratto della scala ed esclamò:

-Cosa fate qui? Quelli del comitato di sciopero hanno già detto che dobbiamo uscire prima che entrino i soldati. Andiamo presto.

Insieme agli altri integranti del comitato di vigilanza, German iniziò la discesa. Il percorso dal tetto al pianterreno produrrebbe nel giovane un'inusitata trasformazione. Improvvisamente si rese conto che non conosceva la sua scuola, che sempre aveva guardato ma mai osservato quello che esisteva in essa.

"Quanto grande e quanto bella è", pensò orgogliosamente mentre scendeva per una scalinata i cui pareti erano decorate con murales. In un quadro appariva chiaramente rappresentato lo scudo dell'UNAM. Un'aquila e un condor abbracciavano con le sue ali tutta la l'America Latina. All'interno dello scudo poteva leggersi il profetico lemma dell'Università: "Per la mia razza parlerà lo spirito." I restanti murales che decoravano la scala alludevano a quello che costituisce la radice stessa della nazione: la sua eredità indigena.

Arrivato alla fine della scalinata, German e i suoi accompagnatori attraversarono un ampio cortile interno e si incamminarono al passaggio che comunicava con l'edificio adiacente. Ogni passo che faceva il giovane sentiva che gli costava maggiore sforzo muovere le sue gambe, come se queste si rifiutassero di lasciare abbandonata la preparatoria. I suoi compagni del comitato di vigilanza l'oltrepassarono e con rapide falcate attraversarono la porta e raggiungerono la strada. Improvvisamente si rese conto che vicino a lui si trovava la ragazza di infantile figura.

-Perché non esci? -inquisì German con tono di rimprovero.

-E perché non esci tu? -replicò la ragazzina al tempo che un misterioso fulgore brillava nei suoi occhi.

Accanto alla porta rimanevano immobili una trentina di preparatorianos; German osservò che nello sguardo di tutti risplendeva lo stesso strano fulgore che brillava negli occhi della ragazza.

-Allora non esce più nessuno? -interrogò urlando.

Nessuno gli rispose, ma la pietrosa immobilità delle figure era in sé un'ovvia risposta.

-Bisogna chiudere questa porta, non sia che vogliano entrare di qui.

Unendo l'azione alla parola German si diede al compito di chiudere l'ultima via di fuga; recuperando prontamente la mobilità vari dei suoi compagni l'aiutarono a realizzare il suo impegno. Fatto questo i giovani ritornarono alla loro scuola. Ben presto poterono comprovare che non erano gli unici che avevano scelto di rimanere. Provenienti dei più appartati angoli dell'edificio continuavano a sorgere adolescenti di tesi visi e fiammeggianti sguardi. C'era per lo meno un centinaio di essi. Una dozzina erano donne.

Spinto dalla curiosità di osservare quello che succedeva sulla strada, German decise di salire di nuovo fino al tetto. La preparatoriana di infantile aspetto non si separava da lui. Mentre realizzava la salita, il giovane ebbe l'estranea sensazione che l'edificio aveva notato già la minaccia che planava in suo contro e che a seguito di ciò un sentimento di profonda angoscia stava facendo preda nella centenaria costruzione. Senza potersi contenere esclamò a voce alta dirigendosi alla sua scuola:

-Non aver paura, non ti lasceremo da sola.

L'accompagnatrice di German non mostrò stranezza alcuna ascoltandolo, come se anche lei percepisse con ogni chiarezza quali erano i sentimenti che prevalevano in quei momenti nella sua scuola. Quando arrivarono al tetto e si affacciarono alla strada un impressionante spettacolo si dispiegò davanti ai loro occhi. L'esercito stava prendendo posizioni. I carri armati avanzavano con strepitoso camminare sulle piastrelle del pavimento e numerosi cannoni miravano con le sue nere bocche alle pareti, porte e finestre di San Ildefonso. Curiosamente, non fu la contemplazione dei bellici manufatti quello che causò maggiore impatto nell'umore degli adolescenti, bensì il ritmico picchiettare nel suolo dei tacchetti degli stivali dei soldati.

-Gli uomini sono sempre molto più pericolosi delle macchine -affermò la ragazza condensando in una frase il pensiero di entrambi.

Completato il dispiegamento di armi e truppe, un militare parlò attraverso il megafono: gli studenti che si trovavano dentro la preparatoria avevano dieci minuti per aprire le porte ed uscire con le mani in alto.

-Andiamo -esclamò German con deciso tono-. Dobbiamo scendere e cercare di impedire che entrino.

Rapidamente iniziarono la discesa, arrivando al primo piano la ragazza si fermò e segnalando l'ingresso di un ufficio affermò:

-Dovevamo avvisarli, a quelli del comitato di sciopero, di ciò che sta accadendo, lì c'è un telefono.

La ragazzina era stata in quel ufficio poco prima, quando alcuni preparatorianos si comunicavano telefonicamente con i dirigenti studenteschi riuniti in Città Universitaria. Senza esitazione alcuna si avvicinò ad una vecchia scrivania su cui c'era un telefono, accanto a questo c'era un foglio di carta nel quale apparivano annotati diversi numeri, dandoglielo a German gli indicò:

-Era a questi numeri a cui parlavano, devono essere della Facoltà di Filosofia.

Il giovane compose il primo numero che appariva nella lista, gli risposero immediatamente. Schiettamente informò quello che stava accadendo; concluse fornendo il suo nome e dopo riattaccò.

Sentendo che il termine concesso per l'esercito stava volgendo al termine, i due adolescenti uscirono veloci dall'ufficio. La possibilità non solo di vedere ma di osservare quanto esisteva nella sua scuola, l'aveva ancora German. Il lungo corridoio dove si trovavano era arredato con murales nei quali si satireggiava le caste privilegiate che, da molto tempo fa, hanno usufruito delle ricchezze del paese. Nel giro di pochi secondi raggiunsero il piano terra. Un forte, eccezionale murale, rappresentava il disperato combattimento di alcuni contadini difendendo una trincea:

-Anche noi stiamo difendendo una trincea - disse German.

Nella stanza dove si era stabilito il centro di pronto soccorso si trovava ancora l'infermiera di gentili maniere. Il suo bianco uniforme e la sua delicata e solitaria sagoma davano all'ambiente una nota di fantastica irrealtà.

-Caspita -commentò German-, almeno avremo chi ci metta un po' di arnica se i soldati ci sparano.

Il centinaio di studenti che rimanevano in San Ildefonso si erano concentrati dietro una delle due alte porte che conducono alla strada dall'interno dell'edificio. Perché solo in una? Non esiste risposta per questa domanda. Magari un'inspiegabile ma abile intuizione aveva fatto loro presentire che sarebbe attraverso quella porta e non dall'altra da cui si verificherebbe l'attacco delle truppe.

German e il suo accompagnatore si integrarono al gruppo. Non contenti con rimanere collocati dietro, cercarono di introdursi gradualmente fino ad essere dei primi. La piccola figura della ragazzina brillava più infantile che mai. German alzò lo sguardo e contemplò un murale nel quale appariva l'immagine della Vergine di Guadalupe. Ricordò l'enorme importanza che sua madre dava alla circostanza che egli fosse nato un dodici dicembre. Il fatto che suo figlio nascesse il giorno devoto alla Patrona del Messico -dopo la prognosi di vari medici nel senso che la maternità sarebbe per lei impossibile- era stato considerato sempre dalla madre di German come un innegabile miracolo. Anche se faceva già parecchi mesi che il giovane Reyes si trovava lontano di ogni pratica religiosa, sentì una serena forza opprimendo lievemente la medaglia che portava al collo.

La preparatoriana di corpo e fazioni di bambina cominciò ad intonare con voce molto bassa l'Inno Nazionale, nelle sue pupille risplendeva di nuovo un misterioso fuoco. German unì la sua intonata voce a quella della sua sconosciuta amica e il centinaio di adolescenti che custodiva San Ildefonso fece altrettanto. Appena aveva concluso la prima strofa quando un atroce boato fece vibrare il venerabile edificio. Insanguinati e disfatti, i corpi degli studenti uscirono volando in tutte le direzioni. Una valanga di soldati portando mitra e fucili con la baionetta pronta si precipitò attraverso la sconquassata porta. Non ebbero con chi usare le sue armi, davanti a loro solo c'erano smembrati cadaveri e gravi feriti che si dissanguavano sul pavimento.

I generali ordinarono che si procedesse alla separazione di morti e feriti. I primi furono ammucchiati in confusa pila e i secondi cominciarono ad essere assistiti per gli ambulanti della Croce Verde, unici che avevano ricevuto autorizzazione dei militari per entrare nella preparatoria. Tra ambulanti e barellieri si muoveva con sollecitudine un'infermiera che sembrava moltiplicarsi nel suo affanno per prestare attenzione ai feriti. L'infermiera si inclinò sul corpo di un ragazzo che aveva perso entrambe le braccia e dei cui occhi, uditi e bocca, perdeva sangue in abbondanza. Giusto in quell'istante l'adolescente spirò. L'infermiera notò che del suo collo pendeva una medaglia con l'immagine della Vergine di Guadalupe; girando il piccolo pezzo di metallo, lesse sul retro un nome e una data: "German. 12-XII-51."

Un ufficiale si rese conto che il ragazzo era morto ed ordinò i soldati di gettarlo nella pila di cadaveri. Il mutilato corpo finì accanto a quello di una ragazzina di infantile apparenza. Quasi immediatamente i militari iniziarono il conteggio di cadaveri e il suo trasloco a trasporti dell'esercito. Erano trenta tre sconquassati e giovanili corpi, ventinove uomini e quattro donne.

Non finiva ancora lo sgombro dei morti quando cominciò quello dei feriti. Sistemati in barelle furono uscendo i giovani seriamente feriti. Insieme a loro lasciò l'edificio l'efficiente infermiera. Diversi militari l'avevano visto al momento di entrare nella preparatoria e, pertanto, avevano motivi per ritenere che non apparteneva al personale della Croce Verde con cui si ritirava ora; tuttavia, nessuno cercò di fermarla.

Il generale Jose Hernández Toledo diede via radio il resoconto dell'operazione al generale Marcelino Garcia Barragan, segretario della Difesa, il quale lo comunicò a sua volta al lic. Gustavo Diaz Ordaz, presidente della Repubblica.

I quattro alti funzionari riuniti nel privato del capo del Dipartimento del D.F. erano silenziosi e insonnoliti, aspettando notizie e istruzioni del primo mandatario. Circa le due della mattina arrivarono entrambe. Con voce che tradiva un'evidente soddisfazione, il lic. Diaz Ordaz li informò di quanto era appena accaduto a scarsa distanza da dove essi si trovavano; l'esercito aveva occupato San Ildefonso; alcuni studenti erano risultati feriti ed altri morti; i cadaveri sarebbero cremati e la sua esistenza chiaramente negata; dovevano convocare quanto prima ad una conferenza stampa e televisione, per fare conoscere la versione ufficiale degli eventi; il conflitto era finito.

Il signor presidente si sbagliava. Il bazucazo non solo aveva falciato la vita di trenta tre adolescenti e distrutto un'antica porta, la sua esplosione aveva fato vibrare le più profonde fibre della coscienza nazionale e questa, finalmente, risvegliava. Il conflitto che ne deriverebbe per le autorità, come risultato di detto risveglio, stava appena cominciando.