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La ribellione del gregge


Mentre Regina stava tornando al suo domicilio aveva luogo nella Piazza della Costituzione un affollato raduno. Un'altra volta si pronunciarono contro il governo i più accesi attacchi, si lessero numerose lettere di carcerati politici - tra esse una di Demetrio Vallejo che era da una settimana in sciopero di fame - e si mostrarono lunghe liste di studenti e dirigenti popolari che si trovavano carcerati o erano spariti.

Concluso il raduno i dirigenti del Consiglio Nazionale di Sciopero affrontarono nuovamente un'inaspettata reazione popolare. In questa occasione non era la rabbia il sentimento che prevaleva nello spirito della moltitudine. L'elevazione del grado di consapevolezza che producesse il rintoccare delle grate di tombacco aveva portato a molte persone a concludere, in modo puramente intuitivo, che non dovevano allontanarsi di quel posto i cui speciali vibrazioni risultavano facilmente percettibili. Un clamore di voci fu crescendo manifestando il desiderio di continuare nello Zocalo a tempo indeterminato. La scusa per questo era una presunta pretesa di convocare alle autorità per effettuare lì un pubblico dibattito. L'anelito di rimanere in piazza era corretto nel momento in cui manifestava che l'inconscio collettivo comprendeva la necessità di portare a pieno compimento il rituale iniziato quella sera, ma risultava errato dal punto di vista che mancavano ancora due settimane per la data in cui sarebbe possibile cercare di concludere detto rituale.

Agendo in modo imprudente - sebbene spiegabile dalla pressione derivata della manifesta volontà collettiva - uno dei dirigenti del Consiglio Nazionale di Sciopero manifestò di fronte al microfono l'accordo per il quale poteva restare nello Zocalo chiunque lo volesse. In un primo momento sembrò che tutti quanti andassero a rimanere nella piazza, ma non fu così, lo stato d'animo delle moltitudini è sempre volubile. Dopo un'ora la maggior parte delle persone cominciò a riconsiderare la loro posizione. Non c'era assolutamente niente da fare e cominciava a sentirsi un po' di freddo; nelle loro case li attendevano cena e letto caldo, era meglio ritirarsi e ritornare di mattina. In un primo momento in modo impercettibile, ma dopo con crescente rapidità, il Zocalo cominciò a spopolarsi. Alle undici di sera resterebbero circa sessantamila persone e un'ora e mezzo più tardi arriverebbero al massimo cinquemila; queste sì, disposte a non muoversi del luogo dove si trovavano.
Da dentro il Palazzo Nazionale il presidente della Repubblica aveva osservato attentamente quanto accadesse, che era molto diverso da quello che aspettava. Prendendo come base ciò che stesse per succedere nell'anteriore manifestazione, il lic. Díaz Ordaz aveva dato per certo che avrebbe luogo un tentativo di prendere il Palazzo d'assalto. Al fine di evitare questo, dispose che si trasformasse la sede del Potere Esecutivo in un'autentica fortezza. Migliaia di soldati portando armi di alto potere si trovavano convenientemente distribuiti nell'enorme edificio, pronti a respingere l'attacco. Ma questo non si verificò, invece di ciò arrivò un'inaspettata sinfonia delle più fantastiche sfumature.

Il lic. Díaz Ordaz era crudele e irascibile, ma non stupido. Ascoltando le eccezionali sonorità provenienti della Cattedrale, comprese l'autentica realtà del conflitto a cui andava incontro; cioè, si rese conto che quello che si stava portando a termine nello Zocalo era un rituale e non un mero atto politico di protesta. Allo stesso modo, capì allora il nascosto significato dell'esigenza che gli sollevasse il gruppo di militari, obbligandolo a permettere la celebrazione di tre grandi concentrazioni nella Piazza della Costituzione. Due si erano realizzate già, mancava una con cui si darebbe, di sicuro, felice termine al misterioso rituale; ma il presidente non era disposto a lasciare che ciò succedesse finché lui potesse evitarlo. Riflettendo sui mezzi di cui si varrebbe per raggiungere il suo proposito, il lic. Díaz Ordaz giunse alla conclusione che il mezzo più efficace per annullare un rituale doveva essere la pratica di un altro. Senza pensarci più, chiese di metterlo in comunicazione immediatamente con il cardinale e arcivescovo primato della città del Messico, monsignore Miguel Darío Miranda.

L'arcivescovo Darío Miranda era una persona in estremo sensata e prudente. Dormiva quando chiamò il presidente e dovette essere svegliato da uno dei suoi aiutanti. Imperterrito ascoltò l'adirata voce del presidente informandolo che un gruppo di vandalici studenti era entrato nella cattedrale a rintoccare le sue campane, commettendo con questo un imperdonabile sacrilegio; motivo per cui, il cardinale, nella sua qualità di massima autorità religiosa della nazione, era obbligato a realizzare il giorno dopo un rituale di risarcimento.

Come una gran parte dell'opinione pubblica del paese, l'arcivescovo della città del Messico si trovava sconcertato davanti all'insolito slancio raggiunto dal Movimento. Nonostante, in nessun modo il suo sconcerto significava che fosse disposto a prestarsi ad una manovra governativa che solamente porterebbe alla Chiesa ad un scontro frontale e non necessario con detto Movimento. Il cardinale Darío Miranda spiegò che nonostante la sua elevata posizione ecclesiastica si considerava un ignorante in materia di diritto Canonico ma che, fortunatamente, esistevano nel paese profondi conoscitori di questa materia. Perciò, riferirebbe quanto prima agli esperti il problema di chiarire, d'accordo con le disposizioni canoniche in vigore, se i suoni di campana di quella sera avevano costituito o non una profanazione del sacro recinto della cattedrale. Solo in caso che la risposta fosse affermativa, realizzerebbe il conseguente rituale di risarcimento.

La risposta fece arrabbiare a più non posso al presidente; tuttavia, non aveva altra scelta che ingoiare la sua rabbia, perché l'ultima cosa che voleva in tali circostanze era aggiungere ai suoi problemi un conflitto con la Chiesa Cattolica. In termini che pretendevano di essere cortesi salutò il cardinale, chiedendogli che non appena avesse la risposta degli esperti in Diritto Canonico gliela facesse sapere.

Non finiva ancora di riattaccare il telefono e già la febbrile mente del lic. Díaz Ordaz lavorava tramando un nuovo progetto. Visto che le autorità religiose si rifiutavano di portare a termine il rituale di cui lui aveva bisogno, corrispondeva al governo - concluse - il compito di procedere a realizzare detto rituale. Mentre osservava attraverso una finestra del Palazzo lo sviluppo dell'appena concluso raduno, aveva avuto opportunità di contemplare ai manifestanti issare sull'asta della bandiera dello Zocalo l'insegna rossonera che viene utilizzata negli scioperi, la stessa che avevano proceduto a ritirare al momento di concludere l'evento. Ricordando il fatto il lic. Díaz Ordaz considerò che questo potrebbe servirgli come pretesto per portare a termine il rituale che proiettava. Chiamando in sua presenza il lic. Alfonso Martínez Domínguez e il signore Fernando M. Garza, presidente del comitato esecutivo del PRI e direttore di relazioni pubbliche della Presidenza rispettivamente, li impartì istruzioni precise per mettere in moto il suo machiavellico progetto.

Il piano ideato dal primo mandatario era il seguente: sia i giornali come le stazioni radio e televisione dovevano diffondere ai quattro venti che i manifestanti avevano commesso un'imperdonabile offesa a lo stendardo della patria, consistente in avere issato sul sito destinato a questo un'altra bandiera. Per lavare questo presunto affronto si effettuerebbe una formale cerimonia di risarcimento all'una del pomeriggio del giorno successivo - cioè mercoledì 28 agosto - alla quale si invitava a partecipare a tutta la cittadinanza. Sapendo che era probabile che quasi nessuno si presentasse per la sua propria volontà alla cerimonia, il presidente dispose che si conducesse fino allo Zocalo a tutti i burocrati che lavoravano nella capitale e negli stati che la circondano, in modo tale che la piazza si vedesse così piena di gente come lo era stata con la presenza dei manifestanti.

Trascinato dall'entusiasmo che gli produceva il suo progetto, il lic. Díaz Ordaz decise di non aspettare il verdetto degli specialisti in Diritto Canonico ed emesse al riguardo la sua propria sentenza: la Cattedrale Metropolitana era stata profanata all'essere suonate le loro campane per strane mani, questo richiedeva ugualmente un rituale di risarcimento la cui realizzazione sarebbe notificata opportunamente al popolo per le autorità ecclesiastiche.1

1 Pochi giorni dopo l'Arcidiocesi del Messico fece conoscere il proprio parere sulla questione: la cattedrale non era stata profanata e, pertanto, non procedeva effettuare rituale alcuno di risarcimento. A dispetto del fatto che quasi nessun mezzo divulgasse la risoluzione ecclesiastica, questa ebbe un'ampia diffusione grazie a che fu letta in tutte le parrocchie della capitale nella messa domenicale; ugualmente, fu pubblicata sulla prima pagina del numero sei di Gaceta, bollettino informativo del Consiglio Nazionale di Sciopero che arrivò ad avere un'importante tiratura.

Per potere effettuare il giorno dopo la proiettata concentrazione dei dipendenti pubblici, si richiedeva in primo luogo ritirare dello Zocalo alle varie migliaia di persone che accampavano su di esso. Prima di dare l'ordine all'esercito affinché procedesse a sgomberare la piazza, il lic. Díaz Ordaz volle assicurarsi che questa ordine non gli comporterebbe problemi con il gruppo di militari che erano intervenuti in favore del Movimento.

Era mezzanotte quando il presidente si comunicò con il segretario della Difesa per informarlo di quello che accadeva nella Piazza della Costituzione, e per chiedergli che glielo facesse sapere ai militari che si opponevano alla repressione.

-Per favore - affermò il primo mandatario con evidente sarcasmo -, chieda a quelli signori che se il permesso di effettuare manifestazioni include anche l'autorizzazione per restare a vivere nello Zocalo.

Il segretario della Difesa localizzò, telefonicamente, il generale oxaqueño che aveva guidato il gruppo di alti ufficiali durante il colloquio con il presidente. Dopo qualche attimo di esitazione, il generale rispose alla domanda che l'era formulata indicando che la petizione che avevano fatto al primo mandatario era nel senso che permettesse la celebrazione di tre manifestazioni nello Zocalo, ma non che si autorizzasse nessuno a rimanere indefinitamente in detto luogo.

Essendogli trasmessa l'anteriore risposta il lic. Díaz Ordaz abbozzò uno dei suoi tipici, ed enormi, sorrisi. In seguito ordinò personalmente il generale Benjamín Reyes García, maggiore della Prima Zona Militare che sloggiasse "a ferro e fuoco" gli occupanti della piazza.

Fortunatamente per le numerose persone che accampavano nello Zocalo - alcune delle quali intonavano canzoni in animati cori, mentre altre dormivano già distese sul pavimento - il generale Reyes García era a conoscenza delle insistenti voci che circolavano nell'esercito, secondo le quali esistevano alcuni militari - tra i quali si menzionava ad alcuni comandanti di Zona - che si opponevano alla repressione del Movimento. In base a quanto precede, il generale giudicò che la soluzione migliore sarebbe ubbidire e disubbidire l'ordine presidenziale che aveva appena ricevuto, questo è, rispettarla per quanto riguardava a sgomberare la piazza, ma aggirarla cercando di realizzare detto sgombro con il minor numero di vittime.

Mancavano esattamente dieci minuti all'una del mattino, quando gli altoparlanti installati nella Piazza della Costituzione annunciarono che coloro che si trovavano in essa avevano cinque minuti per sloggiarla. L'annuncio fece tacere a quelli che cantavano e interruppe i sogni di coloro che dormivano. La piazza si trasformò in una nervosa mareggiata umana. Sfidante, si generalizzò un grido che dopo pochi secondi era pronunciato da cinquemila voci.

-Messico, libertà! Messico, libertà!

Allo scadere del termine indicato le porte del Palazzo si aprirono e per esse cominciarono ad uscire lunghe file di soldati appartenenti ai Battaglioni 43 e 44 di Fanteria e 1° da Paracadutisti. Avanzando in serrata formazione e con la baionetta in canna, ma senza aprire il fuoco, le truppe arrivarono fino a dove si trovavano gli occupanti della piazza; questi non cessavano di gridare e si rifiutavano di ritirarsi. I soldati cominciarono ad utilizzare il calcio dei fucili per colpire con questi a quanti avevano la disgrazia di incrociarsi nella loro strada. Numerose persone rotolarono sul pavimento e, alcune con fratture alle ossa.

Lentamente la moltitudine era stata spinta fuori della spianata, fino a che rimasero solo in questa soldati e corpi gemendo di dolore a causa dei colpi ricevuti. Un centinaio di pattuglie di polizia avevano circondato la piazza e mantenevano ululando le loro sirene. La mancanza di illuminazione pubblica finiva di completare l'ambiente di inquietudine che regnava nella piazza. Dato che la gente si era ritirata ma non dispersa - e continuava nelle strade adiacenti allo Zocalo, proferendo ogni tipo di insulti contro il governo - l'esercito riprese la loro avanzata. Un'altra volta i calci dei fucili abbatterono corpi e fratturarono ossa. Le ambulanze non riuscivano a stare al passo raccogliendo così tanti feriti. Finalmente, il centro della città si svuotò, soltanto piccoli gruppi di studenti continuava insultando da lontano alle truppe, le quali mantenevano sotto il loro controllo una vasta area intorno alla Plaza Mayor.

Una volta sgomberato lo Zocalo, il presidente ordinò si issasse nel suo pennone un emblema rossonero - quello utilizzato dai manifestanti era stato ritirato concludendo il raduno - al fine di poter presentarlo come prova del presunto affronto commesso a lo stendardo della patria. In questo modo, quel proiettato rituale di risarcimento consisterebbe in ammainare la bandiera di sciopero, bruciarla e issare lo stendardo nazionale; tutto ciò in mezzo al rimbombare di tamburi e acclamazioni al governo proferite per i circa mezzo milione di burocrati che sarebbero portati all'atto. Camere e microfoni trasmetterebbero, dal vivo, la più lampante prova di unità popolare intorno alle autorità.

Sempre più compiaciuto con cui stimava sarebbe una magnifica risposta al rituale effettuato quella sera nello Zocalo, il presidente si ritirò a riposare. Erano le tre di notte e una tesa calma regnava nell'ambiente. Tutto sembrava presagire che ben presto succederebbero nuovi e importanti sviluppi.
Il signor German Reyes, onesto e laborioso impiegato che portava ventidue anni lavorando nella Direzione Generale di Imposte Interni della Segreteria delle Finanze e del Credito Pubblico, ascoltò senza riuscire a concentrarsi l'avviso che dava il delegato sindacale che dovevano sospendere le attività e uscire alla Piazza dalla Costituzione. Consisteva, gli sembrò riuscire a capire, in partecipare ad una concentrazione massiccia e il cui scopo era rendere omaggio alla bandiera. Con fiacchi movimenti il signor Reyes tenne i documenti che aveva sulla scrivania ed uscì dal suo ufficio. Le corsie e i corridoi del Palazzo Nazionale -in uno di cui cortili interni erano ubicati gli uffici della Direzione Generale delle Imposte Interne - si trovavano affollati di dipendenti pubblici che si dirigevano allo Zocalo a compiere il mandato ricevuto.

Integrato alla corrente umana che sgorgava dal palazzo, il signor Reyes uscì di questo e con passi simili a quelli di un automa avanzò verso il centro della piazza. La luce del Sole ferì la sua vista costringendolo a socchiudere gli occhi. Erano già quattro settimane che quasi non dormiva né mangiava, in preda a un'angoscia insopportabile. Suo figlio, suo unico figlio, era sparito dalla notte in cui la Scuola Nazionale Preparatoria fosse invasa dalle truppe. Gli sforzi realizzati dal signor Reyes e da sua disperata moglie per localizzare il giovane German erano stati completamente inutili. I suoi compagni di scuola assicuravano che non era uscito quella notte dell'assediato San Ildefonso. Le autorità affermavano enfaticamente che l'assalto dell'esercito alla preparatoria non aveva causato la morte di nessun studente; ma German non compariva da nessuna parte, né vivo né morto. I coniugi Reyes si erano recati a tutte le persone che, di una certa influenza, conoscevano per supplicarli che li aiutassero a trovare suo figlio. Vano impegno, e soltanto ricevevano elevate dosi di false speranze: "Non si preoccupi, il ragazzo deve essere nascosto da qualche parte, in casa di qualche amico, apparirà quando si calmino questi piantagrane."

Proveniente della calle de Argentina arrivava allo Zocalo un altro fiume umano. Erano gli impiegati della Segreteria di Educazione Pubblica che si recavano pascolati per i suoi corrispondenti dirigenti sindacali. Lo stesso succedeva nei due edifici del dipartimento del Distretto Federale situati in un fianco della piazza, i quali gettavano in essa diverse migliaia di burocrati al minuto. Lunghe file di autobus trasportando personale di diverse segreterie di stato continuavano ad arrivare al centro dalla città. L'operazione di trasporto si realizzava in modo efficiente e preciso.

Nulla di quanto osservava attirava l'attenzione del signor German Reyes, i suoi pensieri si mantenevano centrati nella scomparsa di suo figlio e la distruzione fisica e morale che questo fatto stava producendo nella sua moglie. Un'altra volta ricordò il diffuso pettegolezzo che l'occupazione della preparatoria aveva lasciato un bilancio di vari studenti morti i cui corpi erano stati cremati. Come succedeva ogni volta che questo pensiero gli veniva in mente, cercò di respingerlo immediatamente. Suo figlio non poteva essere morto, doveva essere vivo da qualche parte, magari ferito, forse carcerato.

Improvvisamente e senza che nessuno avesse notato l'esatto momento del suo arrivo, fecero la loro comparsa in piazza numerosi gruppi di studenti. Utilizzando come tribuna le braccia dei suoi propri compagni che li alzavano in bilico, alcuni dei giovani si trasformarono in improvvisati oratori. Con frasi piene di fuoco cominciarono a dare la sua versione dei fatti successi la sera prima in quel stesso posto: in nessun modo avevano preteso di profanare l'insegna nazionale; se avevano issato uno striscione di sciopero era semplicemente perché erano in sciopero; invece il governo sì profanava in forma permanente lo stendardo della patria, utilizzandolo come un emblema del PRI.

La presenza degli studenti attirò subito l'attenzione del signor Reyes. In ciascuno di essi gli parve di vedere l'immagine di suo figlio. Identica coscienza del pericolo che potrebbe derivare dalle loro azioni e la stessa passione per difendere quello che stimavano giusto. E fu allora, in subitanea rivelazione, quando fu consapevole di quale era la vera natura del proprio essere, quella che aveva determinato ciascuna delle sue azioni per tutta la sua esistenza. Con voce che gli risultò strana per la totale sincerità con cui esprimeva la sua più profonda verità, cominciò a gridare:

-Sono un agnello! Baa, baa, baa.

Una sconosciuta e potente forza si era svegliata improvvisamente all'interno del signor Reyes. Il sincero riconoscimento del suo modo di essere gli produceva un sentimento di libertà come mai sperimentato prima. Con la voce sempre più forte, continuò a belare con insistenza.

-Baa, baa, baa.

In altre circostanze è molto probabile che coloro che presenziavano la singolare condotta assunta per il signor Reyes l'avessero considerato pazzo e, forse, fatto battute a sue spese. Ma in quei momenti la sincera, straziante accettazione della sua autentica natura esposta pubblicamente, diventò inaspettatamente un esempio per tutti. In un lampo di collettiva intuizione i burocrati congregati nello Zocalo percepirono la sua propria realtà esistenziale. Un vano lavorare effettuando compiti di routine ed assurdi. Un umiliante disprezzo alla sua dignità di esseri umani, praticato quotidianamente per i potenti di turno. Vite dedicate alla sola attesa della pensione e della morte.

Prima decine, poi centinaia, poi migliaia e finalmente centinaia di migliaia di impiegati pubblici cominciò a belare:

-Baa, baa, baa.

Tale e come succedesse al signor German Reyes, la piena accettazione del suo vero modo di essere generava in coloro che l'effettuavano una sorta di catarsi purificatrice che si traduceva in un senso di liberazione. I belati dell'immensa moltitudine potevano ascoltarsi a molti isolati dello Zocalo. Il suo tono rivelava contemporaneamente tristezza e dignità. C'era un atteggiamento di aperta sfida nell'apparente passività dei burocrati.

Definitivamente quella non era il comportamento che il governo si aspettava dei suoi dipendenti. I megafoni della piazza annunciarono che si cancellava la cerimonia e coloro che si trovavano nello Zocalo avevano dieci minuti per sgomberarlo e ritornare per continuare a lavorare nei loro rispettivi uffici. La moltitudine non si mosse, proseguì a belare ancora con maggiore insistenza. Trascorso il termine cominciarono ad uscire da Palazzo Nazionale forti contingenti di truppe, presiedute da carri di combattimento. Veicoli e soldati si scagliarono contro i dipendenti pubblici.

Si generalizzò un immediato sbandamento. I carri di assalto aprivano larghe brecce tra la gente lasciando al loro passo una scia di feriti gravi. I calci dei fucili completavano l'opera delle macchine abbattendo corpi a destra e sinistra. In pochi minuti la piazza fu sgomberata, rimasero solo in essa i doloranti organismi di diverse centinaia di burocrati i cui lesioni impedivano loro di ritirarsi sulle sue gambe.

La moltitudine si era ripiegata verso le strade che sboccavano nello Zocalo e l'esercito andò dietro di essa. Si verificò allora un'inaspettata reazione delle persone che abitavano o lavoravano negli edifici esistenti in quelle strade. Da terrazze e finestre cominciò a cadere una vera pioggia di oggetti gettati contro i soldati. Pioveva di tutto: bidoni della spazzatura, sedie, vasi, bottiglie, libri, utensili da cucina, macchine da scrivere, apparecchi di radio e televisione.

L'attacco a sorpresa paralizzò per un attimo l'avanzata delle truppe. Non pochi soldati caddero per terra ricevendo in pieno l'impatto di qualche oggetto di uso casalingo o da ufficio lanciato da diversi piani di altezza. Un soldato alzò il suo fucile e puntò una bella segretaria che aveva appena gettato, con un'ottima mira, la sua macchina da scrivere. Si ascoltò una detonazione e la segretaria rimase appesa fuori dalla finestra con il cranio frantumato. Lo sparo fu come un segno, subito si lasciarono sentire in diversi luoghi numerose scariche di fuoco. La pioggia di oggetti cessò e già nessuno si affacciò alle finestre e tetti. Impossibile sapere quante persone furono uccise o ferite dai proiettili. L'esercito rimase come unico padrone delle strade.
Quando si registrò l'attacco delle truppe sui burocrati, il signor German Reyes cercò di rimanere dove si trovava. Non ci riuscì. Un soldato gli diede un calcio di fucile in una spalla slogandogliela e la terrorizzata moltitudine lo trascinò nella loro ritirata. Finì al viale 16 di Settembre dove un'impiegata della sua Direzione gli fece segni che la seguisse, facendolo entrò in un ristorante che operava nelle cantine di un edificio. Nel momento di entrare - giusto prima che chiudessero le loro porte - riuscì a leggere il nome dello stabilimento: Restaurant Bar Sobia. Provenienti dell'esterno si ascoltavano precipitose corse, grida di angoscia, strepito di oggetti che erano lanciati alla strada e, finalmente, colpi di arma da fuoco.

Il personale del ristorante si mostrò in estremo solidale. Ghiaccio e tovaglioli che servivano da bendaggi furono proporzionati a coloro che avevano colpi e ferite. Il signor Reyes si sedette ad aspettare pazientemente il momento opportuno di poter ritornare a casa. Era già un'altra persona, una radicale trasformazione era avvenuta al suo interno. Ora aveva la piena certezza che suo figlio era morto e che non gli sarebbe mai dato neanche la debole consolazione di poter vegliare il suo cadavere. Insieme ad un'enorme tristezza sentiva anche un profondo orgoglio per il fatto di essere stato il padre di un figlio come German. Giurò a sé stesso che quello che gli rimanesse di esistenza lo vivrebbe in tale modo che suo figlio, da dove si trovasse, potesse esserne fiero di suo padre.

Nell'ufficio presidenziale il lic. Díaz Ordaz stava avendo un altro dei suoi sopraffatti attacchi di rabbia. La possibilità che i burocrati potessero reagire con dignità non aveva mai attraversato la sua mente. La furia del primo mandatario non gli impediva di pensare con lucidità. Così come aveva visto frustrato il suo proiettato rituale - concluse - lui anche riuscirebbe a rovinare quello dei suoi misteriosi nemici, era solo questione di conoscere in anticipo quali erano i requisiti a cui detto rituale dovrebbe adeguarsi e di procedere poi in modo tale che questi non fossero raggiunti.

Mentre contemplava una foto che gli fosse scattata il giorno della sua ascesa al potere, il presidente promise, per l'onore del suo partito, che farebbe fallire il prossimo rituale che si cercasse di svolgere nello Zocalo.